lunedì, febbraio 26, 2007

Una storia dalla Lucania (ex) felix

Come sempre la prima voce della giornata è per me quella della radiosveglia. Stamattina, però, non è stata rassicurante come al solito, perché ha mandato all’aria un mito, quello della Lucania Felix. Cosa prontamente ripresa dal Corriere on line, peraltro.
Un groviglio inestricabile di magistratura, amministratori pubblici, cognati e cugini: roba da far girare la testa. Provo a venirne a capo, ma senza successo: chiederò lumi a chi con questa gente ci è andata a scuola.

Sempre oggi, però, ricevo da mia sorella Valeria un lungo racconto sulle sue vicissitudini professionali. Gliel’avevo chiesto io, da pubblicare qui, ma lei ha esagerato. Siccome le storie che racconta sono storie di Basilicata, lo prendo come un segno. Così ho deciso di prenderne un pezzo e di lasciare che lei si decida ad aprirsi un suo blog.

E quindi ricevo e con piacere pubblico.

Una supplente sulle montagne

Vivo nella provincia italiana. Non quella toscana, costellata da agriturismi, né quella lombarda, brulicante di fabbriche che sostengono l’economia del paese. No, la mia provincia è quella vera, quella meridionale, dove le nonne vanno in giro con il lutto del marito morto in guerra – non si sa bene quale – il fazzoletto in testa, che da queste parti assume il suggestivo nome di tuccatino, e le Superga (provate ad andare a zappare il campo con scarpe diverse).

Siamo in tutto circa 600.000 anime, cosa che ha un impatto piuttosto negativo sulla nostra possibilità di influenzare la politica nazionale (600.000 voti li prendi in un quartiere di Roma, quindi chi se ne frega di un’intera regione?), e in più, orograficamente parlando, in mezzo alle montagne: belle, sì, ma pur sempre scomode. Per esempio: come si fa a costruire una strada diritta e larga? Su ogni cima, un paesello, martoriato di volta in volta da terremoti, frane, smottamenti, poi più o meno ricostruito (ogni paese perde annualmente circa il 10% dei suoi abitanti. Ma questa è un’altra storia).

Un bel giorno di metà gennaio mi chiamano dalla segreteria di una scuola media fuori città. Non ci posso credere! Dopo sette anni dal concorso! Dopo dodici anni dalla laurea! Ma questo è il mio anno fortunato!!! Mi tengono appesa al cellulare per due giorni: stanno cercando la persona che mi precede in graduatoria – chiamano i precari in batteria. Finché non la trovano, e questa non rinuncia ufficialmente, non possono conferirmi l’incarico.
Mi improvviso 007. È una mia ex collega di università. Le ultime notizie che ho di lei risalgono a circa due anni fa. La incontrai lungo il passeggio cittadino con fede al dito, bimba nuova di zecca e un lavoro… dove? Ah sì, in una grande azienda nella zona industriale. Passo le notizie alla segretaria della scuola. “Provo a cercarla in azienda allora, poi ti richiamo”- le segretarie delle scuole ti danno subito del tu. “L’ho trovata. Lavora ancora lì e rinuncia all’incarico. Lo accetti tu?”. Al volo! È un incarico annuale, il che vuol dire punteggio pieno – l’anno prossimo salgo in graduatoria ma Dio solo sa dove mi spediranno! Ma va bene. Si tratta di due giorni alla settimana, quattro ore in tutto. Bene, non devo lasciare la tipografia (dove faccio la stagista per… No, anche questa è un’altra storia).
Di pomeriggio. Di pomeriggio? Come mai? È un corso di terza media per adulti. Ah. Va bene, sono più gestibili dei ragazzini moderni. Ok, lunedì ci vediamo per firmare il contratto.

Lunedì parto alla volta del ridente paesino. Cinquantacinque chilometri per firmare un contratto in una scuola media. Ma è lavoro. Quello vero. Firmo il contratto, lascio i documenti richiesti e comunico il mio numero di conto corrente – duecento euro al mese li accreditano sul conto? Domani comincio. Ma che strada si fa per arrivare lì. Il paese non è lo stesso della sede centrale della scuola e non ci sono mai stata. Una mia vecchia amica è originaria di questo posto. La chiamo e mi faccio dare indicazioni. “Quando lasci l’autostrada prosegui sempre diritto, non puoi sbagliare”. Due e mezzo del pomeriggio. Sole splendente – meno male che non nevica – da queste parti accade spesso e troppo a lungo. Prendo l’autostrada, esco dove mi hanno indicato e proseguo, sempre diritto. Strada relativamente larga e comoda, nel mezzo di un’altra zona industriale – ce ne sono diverse. Due industrie di birra – quella analcolica la fanno qui?! Ma dai! E anche quella che ho visto in un supermercato milanese a 50 centesimi! Che bello!
Dopo le fabbriche, un susseguirsi di scali ferroviari, senza biglietteria, ma di qua passa il pendolino e le fa tutte le fermate! Peccato che i centri abitati si trovino in cima a quelle montagne, a circa dieci chilometri dalle stazioni. Finalmente arrivo in un borgo. Ma devo attraversarlo tutto? Forse ho sbagliato strada. Ma no. Mi inerpico tra i tornanti (in salita) e su in cima, proprio al centro della piazza principale trovo un’indicazione per la mia destinazione finale. Esco dal paese. Continuo a salire su per altri tornanti. Occhio al contachilometri: ne ho già fatti più di cinquanta. Ma dove cavolo sta ‘sto posto? Andiamo avanti. In lontananza vedo un altro borgo, ma questo è famoso. Perché? Ah sì, c'è l’osservatorio astronomico. E ti credo! Da qua su le stelle le vedi anche senza telescopio! E devo attraversare anche questa volta tutto il paese. Stessa scena: piazza principale in cima, indicazione: prosegui. Mi sembra il gioco dell’oca. Spero di non trovare a un certo punto: perdi il turno, indietreggia di due caselle.
Valico: Monte Carruozzo. Il cartello recita: 1.228 mt slm. Hai capito! Ma ora si comincia a scendere. Guarda che panorama! Mozzafiato! Sul serio. Sono sulla cresta della montagna. Due valli a destra e a sinistra, un laghetto di un blu mai visto – scoprirò che si tratta di una diga costruita meno di cento anni fa per portare l’elettricità nella zona. Eccolo! Sono arrivata. Chilometri: sessantacinque. Devo andare verso l’ospedale, la scuola è proprio lì vicino. L’ospedale lo trovo facilmente, è un rinomato centro ortopedico (ti credo che la gente arriva qui con le ossa rotte). È di fronte al comune. Come dire, sono di nuovo nella piazza principale.
Sono in anticipo. Cerco un bar – ti pare che non ne trovo uno di fronte al comune? Sennò dove vanno gli impiegati?
Ora vado a scuola. Deliziosa. Al primo piano l’asilo, al secondo la scuola elementare. I bambini qui fanno il tempo pieno, vanno via alle quattro e mezzo. Ma io dovrei cominciare alle quattro. Niente paura, gli allievi lo sanno – delle 4 o delle 4.30?
Nel frattempo la bidella – scusate, collaboratrice scolastica – mi informa che gli abitanti ERANO cinquemila, ora sono circa millecinquecento. Fantastico. In quanto tempo? Dal terremoto. Il terremoto: una specie di anno zero per la nostra provincia. Non c’è bisogno di specificare quale. Tutti lo sanno. E condividono memorie, dolori, trasferimenti forzati. Questo paese, troppo vicino all’epicentro, fu raso al suolo, letteralmente. Lo raccontano le cronache. E si vede. Sembra che sia stato costruito solo dieci anni fa. Case nuove, municipio e scuole sono donazioni degli alpini e di altri benemeriti.

I miei ricordi personali di quel drammatico evento vengono bruscamente interrotti dall’arrivo di due gnomi. Giuro. Due folletti del bosco. Piccoli, con baffoni, coppola e giubbotto del mercatino post terremoto, sciarpa attorcigliata – non so come dire per rendere meglio l’idea – attorno al collo. Sono loro. I miei allievi. Li guardo perplessa, ma il ruolo mi impone un sorriso.
Ne arriva un altro. Alto, magro, barba di vari giorni, giubbotto di pelle – si vede che da queste parti si porta – sotto braccio un'agenda della pro loco locale. Apparentemente è sulla cinquantina, ma scopro dal registro di classe che di anni ne ha 38.
Il quarto a presentarsi non ha segni particolari ad eccezione di uno sguardo assai spento dietro gli occhiali spessi.
L’ultimo – per oggi – ha i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo ed è incazzato come una iena. Quando è cominciato il corso? Perché nessuno lo ha avvisato? E come hanno scelto i partecipanti – manco fosse un concorso per il Grande Fratello. E quelli del computer (il corso di informatica si tiene nell’aula accanto)?

Tutta questa manfrina origina nel progetto che ha dato vita a questa terza media. È tutto merito (?) di un provvedimento regionale per lo stanziamento di fondi a beneficio dei disoccupati residenti in determinati comuni. In pratica, li pagano per venire a lezione. Ma che volete da me? Mi ha spedito qui una graduatoria provinciale, per la prima volta nella vita mi pagherà un ministero. Che ne so di corsi, regione, comune, soldi? Facciamo lezione, và.

“Signò, qui nun sapemm’ l’talian, c’iamma ‘mbarà l’ngles!”
Per i non autoctoni: “Signora, qui non conosciamo l’italiano, dovremmo imparare l’inglese!”
E avete ragione pure voi. Good afternoon!

Chiudiamo la porta. Ma quest’aula sembra una cantina! Dove siete stati prima di entrare qui! Almeno invitatemi che così faccio lezione più allegramente! Apriamo la finestra, prima di noi ci sono stati i bambini a fare ginnastica: cambiamo l’aria.

Dopo tre settimane di effluvi alcolici continuo a ripetere che I am vuol dire io sono e you are significa tu sei. Ma imperterrita, continuo la mia missione socio-didattica. In queste tre settimane, oltre a spiegare le prime due lezioni del libro di testo, ho acquisito due nuovi allievi e un po’ di notizie.
I due nuovi sono eccezionali. La signora, che dichiara con orgoglio i suoi 52 anni, è tornata al paese natio dopo 35 anni trascorsi a Zurigo per stare vicino alla famiglia. Manco a dirlo, due mesi dopo il suo arrivo ha perso il papà. Povera. Ne soffre tanto. Viene a scuola perché ha intenzione di rilevare un’attività commerciale – di quelle che vendono sigarette, detersivi, articoli di cancelleria e forse anche frutta e verdura – ma senza un titolo di studio non potrebbe farlo. Il suo… apprendimento non è inquinato tanto dal dialetto quanto dal tedesco. Pazienza, almeno lei capirà qualcosa di quello che dico.
L’altro ragazzo – 20 anni – viene da Chernobil. Ha quattro tra fratelli e sorelle, ma lui, il più piccolo, dopo la morte della mamma è stato affidato ad un collegio e da lì mandato ogni anno in Italia, come tanti altri bambini bielorussi. Due anni fa è stato adottato da una famiglia italiana ma per poter rimanere nel nostro ospitale paese deve lavorare. Ovviamente, e per fortuna, lo fa. È operaio in una fabbrica di componenti per moto e motorini, quindi fa i turni, anche quelli di notte, e può frequentare una settimana sì e una no. In virtù della sua frequenza, una settimana sì e l’altra no devo fare un’altra strada per andare dalla “città” al “borgo” per recuperare la signora, che, come lui, vive in un altro paese ancora. Inutile dire che questo giro comporta un tot di chilometri in più attraverso l’industrializzata campagna (quante zone industriali! Se funzionassero tutte e per davvero faremmo invidia alla Lombardia!).

A questo punto, totale della mia classe: 7 persone. Ma il meglio deve ancora venire. Il coordinatore di questi corsi per sventurati (a scelta tra insegnanti e allievi) mi aveva informata della missione sociale da compiere; anche senza il suo prezioso intervento avrei capito da sola che si trattava di tenere queste persone impegnate e lontane dalla strada, cioè dal bar. Quello che non mi ha detto lui, però, l’ho saputo dalla solerte bidella.
Tra i cinque indigeni si annoverano: un alcolista (ma va?!), un (forse) ex tossico, un ladruncolo e un sospetto pedofilo. Ecco perché dopo la prima settimana di lezione ci hanno trasferiti nella sala consiliare del municipio! I genitori dei bambini,di fronte all’allegra brigata, hanno messo a soqquadro la scuola e hanno costretto la preside, il sindaco e i (due) vigili urbani a trovare una soluzione alternativa alle aule delle scuola.

Ma la missione chiama. Non volevo andare in Africa ad aiutare i bambini sfortunati? Questi non sono più bambini, ma hanno lo stesso un gran bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro.
Uno alla volta, e un po’ per volta, ciascuno racconta la propria storia e questo mi fa entrare in aula con il desiderio di fargliela dimenticare almeno per due ore.
Uno dei due folletti del bosco vive in casa con la moglie gravemente malata. I suoi figli, di 19 e 15 anni, vivono con gli zii.
L’altro folletto ogni pomeriggio vuole offrirmi il caffé e i larghi sorrisi sgangherati che mi regala nascondono un’offesa gravissima davanti ad un mio rifiuto.
Il più etilico di tutti, quello alto, dopo mezz’ora di parole in libertà si alza e se ne va. Non conoscerò mai la sua storia.
Gli occhiali spenti, invece, la storia me l’hanno raccontata. Anche lui è tornato in paese da poco. Ha girato mezza Italia facendo i lavori più disparati: carpentiere, muratore, raccoglitore di rifiuti differenziati. Ad un certo punto ha fatto il giostraio in società con un suo parente. E poi? Perché non hai continuato, eri pure socio? “Ho fatto delle cose illegali” è stata la sua laconica risposta.
La coda di cavallo è scomparsa e al suo posto ha fatto apparizione un volto pulito e sbarbato, di una persona veramente garbata. Non è più incazzato, anche se ha un’aria terribilmente ansiogena. Lui è quello che forse ce la mette più di tutti, vuole imparare, vuole capire, ci tiene a combinare qualcosa, magari per i suoi figli. Ne ha quattro, i primi due sono gemelli, gli altri sono arrivati nella speranza di avere una bambina.

(NdA: Pittoreschi? Buffi? Fanno tristezza? Non lo so. A me fanno tenerezza)

Valeria

13 commenti:

Anonimo ha detto...

post appartenente alla categoria: disperazioni quotidiane prese col sorriso.
Molto bello...
firmato: una che abita in un'altra provincia vera (frosinone e dintorni)
:)

Labelladdormentata ha detto...

Giuliana, devi convincere tua sorella ad aprire un suo blog, oppure fai una sezione speciale in cui lei possa continuare a scrivere queste storie! E' un racconto bellissimo, quasi l'incipit di un romanzo!
Voglio sapere come va a finire la storia!!!!

Giuliana ha detto...

@brigida: grazie (spero che valeria legga i commenti...)

@labelladdormentata: temo che non vada a finire da nessuna parte, tutt'al più si può arricchire del profumo delle ginestre che in primavera arriva fino in cima ai bricchi dal fondo della valle :)

Anonimo ha detto...

sono emozionata, è la prima volta che scrivo e mi leggo su un blog (va bene, chi mi ospita soffre di nep...sorellismo). non so se aprirò mai un blog tutto mio ma magari continuerò a mandarvi qualche cronaca locale. grazie a tutti. valeria

ruben ha detto...

L'atmosfera ricorda quella di "Non uno di meno". Solo che non sono bambini e... non è la Cina! Sembra più che altro una "terra di mezzo"!!!

Giuliana ha detto...

@ruben: è una terra di mezzo. quando ci vivi, però , ti sembra tutto normale, e chissà se è un bene o un male. poi quando te ne vai... anche questa è un'altra storia :)

pOpale ha detto...

Bellissimo post. Complimenti Valeria, mi accodo a labelladdormentata dovresti aprire un tuo blog :)

Francesca Palmas ha detto...

Perchè non fate un blog duble face? è un'idea ;)

Giuliana ha detto...

@ la coniglia: magari, sì. è che valeria è praticamente allergica a internet!

@ale: venerdì valeria sarà a milano, se riusciamo a vincere l'allergia il blog glielo apro io

Anonimo ha detto...

Non era "Campania felix"?
:-)

francesco ha detto...

che bello questo post Valeria, mi ha ricordato quando qualche anno fa facevo l"agente di sviluppo" nel salento (immagina...). Il mio compito era di far diventare i tuoi alunni imprenditori. A distanza di anni la sensazione è la stessa mi fanno ancora tenerezza... dovremmo approfondire l'argomento!
Francesco

Anonimo ha detto...

Spettacolare!
Che bel post!
Anche i commenti sono ottimi!

Andrea Rendi ha detto...

Ma non erano gli insegnanti quelli "che hanno tre mesi di ferie l'anno", "che lavorano solo 18 ore alla settimana"? Conosco da vicino qualcuno con un'esperienza simile (meno faticosa). Se sugli insegnanti ci fossero meno luoghi comuni. Ciao.