mercoledì, luglio 31, 2013

Flashdance o la generazione a cui abbiamo rubato



Ho acceso la tv durante il pranzo e c’era Flashdance. Un po’ emozionata, mi sono messa a guardarlo, con mio figlio che mi chiedeva cosa fossero gli scaldamuscoli. A parte queste note di colore l’ho trovato lento e tutto sommato noioso, e non ho finito di vederlo. E dire che lo adoravo, che come la metà delle adolescenti di allora volevo essere come Jennifer Beals.



In fondo la nostra generazione è stata fortunata. Non solo per questioni meramente economiche – mediamente le nostre famiglie non ci hanno fatto mancare niente e grandi preoccupazioni per il futuro non ne avevamo – ma perché se una cosa è rimasta di quegli anni 80 è l’idea di sogno. Non il sogno alla Briatore, che semmai è l’esatto contrario, ma il sogno-sogno. La passione. La voglia di raggiungere un obiettivo solo nostro. Talmente nostro che spesso le famiglie non erano d’accordo.

Io sono cresciuta con Saranno Famosi (la serie prima, il film dopo, perché era un po’ spinto e quindi a casa mia era vietato), con Footloose, con Flashdance, appunto. Con storie di ragazzi più o meno della mia età che si facevano un mazzo tanto per un “loro” sogno. E queste storie me le sono portate in casa, come i miei compagni di conservatorio, come le compagne di danza di mia sorella: tutti in lotta aperta con i genitori, perché un figlio che studia il piano è una cosa di cui andare fieri con i genitori dei compagni di scuola, mentre un pianista tra un milione di pianisti sarà al contrario molto probabilmente un disoccupato; dei ballerini non parliamo nemmeno. Eppure non ci perdevamo d’animo. Avevamo Alex, Bruno, Leroy e tutta queste gente qua dalla nostra parte.



(Una mia collega di università, al Dams, un giorno sbottò dicendo: “E via, lo sappiamo benissimo che la maggior parte di noi è qui perché ha visto Saranno Famosi!”. L’oggetto del contendere erano le telefonate che tutti gli anni a maggio ci arrivavano da ragazzi che volevano iscriversi al Dams ma non avevano idea di cosa aspettarsi e ci facevano le domande più assurde, tipo per quando erano fissati i provini. Finché un giorno… Ma questa è un’altra storia).

Noi che cosa stiamo dando ai nostri figli? Una scuola basata sulle performance e non sulla crescita individuale – praticamente un modello aziendale. Talent show dove la competizione viene prima di tutto, prima anche della passione e lontana anni luce dalla solidarietà che fa crescere. Agende serrate che culminano in un mese di passione l’anno, in cui i saggi delle attività più svariate si sovrappongono a formare un’inestricabile foresta di impegni.


Poi dice che non desiderano più niente. Vorrei anche vederli, ad avere ancora voglia di desiderare. E poi sulla base di quale modello dovrebbero desiderare? Tutto ciò che è acquistabile non riesce a stare alla base di un reale desiderio, con buona pace dei signori del marketing. Perché una nuova console non è un desiderio, è una voglia che se ne va, un bene di consumo. “Desiderare” è voler fare l’astronauta, l’equilibrista, il batterista. Ma noi non abbiamo astronauti, equilibristi, batteristi da proporgli, perché non ci sembrano rilevanti, costoro; non ci sembrano funzionali.


Gli abbiamo rubato il futuro? Certo. Ma soprattutto non li stiamo abituando a sognare. E se non sognano non desiderano, se non desiderano non si sbattono, se non si sbattono non hanno futuro. Il cerchio si chiude e pure le vite dei nostri figli.

(Me lo fossi vista fino alla fine, Flashdance, chissà che veniva fuori).

mercoledì, giugno 05, 2013

Il Boss e il bambino

Alla Città dei bambini di Genova c’è, tra le tante cose, uno specchio che un po’ riflette e un po’ fa passare l’immagine. Il gioco è che ci si siede dalle due parti, si regolano gli sgabelli finché gli occhi di entrambi sono alla stessa altezza e si guarda l’immagine: i volti ne risultano “mescolati”. L’ho fatto con mio figlio, domenica. Ma non si è mescolato niente. Era la stessa faccia, con i capelli più lunghi o più corti (poco, più corti).

Gabriele è sempre stato la fotocopia di suo padre. Le foto del papà da piccolo le abbiamo spacciate per sue anche con le nonne, anche con lui, una volta.



Poi lunedì sera, mentre andavamo al concerto del Boss, insieme a Chiara e Lorenza, Paola mi fa: “Ma tuo figlio è uguale a te!”. Lo so, Paola, solo da 24 ore, ma lo so.

È stato il battesimo di San Siro, per Gabriele. Roba che se si aspetta che sia sempre così sarà ben dura. Perché dal terzo anello, di fronte al palco, Bruce si vede piccolo, ok, ma il resto dello stadio è uno spettacolo che fa accapponare la pelle. (Che poi è stupendo. Da lì si vede lo skyline di Milano, con la torre Velasca, il Duomo e i grattacieli. E in mezzo Bruce Springteen).

Gabriele è arrivato su correndo per le rampe delle torri. Lui, correva. Noi annaspavamo dietro. Poi abbiamo preso posto e lui mi fa “grazie, eh. Non lo sai che ho paura dell’altezza?”. Merda. Mica me lo immaginavo che fosse così in alto. Ok lo skyline, ma siamo decisamente in alto. Finalmente è iniziata la musica. E io ero ancora preoccupata per l’altezza (il pupo se ne stava attaccato alla sedia che neanche se l’avessimo incollato col bostick) quando, doveva essere la terza canzone, Gabriele cambia faccia, gli vengono i lucciconi e scoppia in un pianto dirotto. “Voglio andare a casa. Voglio andare a casa, per favore”. Lo coccolo un po’, magari questa cosa dell’altezza è più seria di quanto pensi. Poi ho un’illuminazione. “Gabri, è per la canzone?” “Sì. Mi emoziona troppo”.

Eccolo qua. Mi sento di nuovo seduta da una parte dello specchio alla Città dei bambini, ad osservare attonita me con sulla testa i suoi capelli e lui con i miei. È il mio problema con la musica, soprattutto quella dal vivo. Mi emoziona troppo. E piango come una fontana. Come Gabriele. E lui piange e Bruce Springsteen canta e io mi sento in colpa. Nell’ordine:

1) Per aver preso un posto troppo in alto
2) Per aver costretto Gabriele a ripassare storia di corsa, che domani ha una verifica (no, ma scusate, una verifica 3 giorni prima della fine della scuola?)
3) Per averlo portato a sto cazzo di concerto invece di lasciarlo a casa con la tata.

Poi il mood è cambiato. Gabriele è andato a fare un giro con suo padre e quando sono tornati cantava e ballava. Abbiamo cantato e ballato fino a quando non gli si sono chiusi gli occhi per il sonno. Il che accadeva verso la fine. (64 anni e cantare suonare ballare senza interruzione per 3 ore e mezza. Al 120° minuto ha steccato, è rimasto calante per qualche secondo, ma il fatto è che.)

Non siamo rimasti per il bis. Ci siamo avviati con questo ragazzino lungo e stretto lungo le rampe in discesa e dopo un paio di curve è iniziata Born to run. Gli dico “Gabri, sai come si intitola questa canzone? Born to run” “Ah sì? Sei pronta?” “Sì” “Via!”

Siamo scesi dalla torre correndo come forsennati. Lui è arrivato cinque minuti prima di me, se ne stava appoggiato al muro ridendo insieme al tipo della sicurezza. E quando ho tagliato il traguardo anch’io abbiamo ballato finché la canzone non è finita, e tutti ci guardavano, e lui diceva “è stato bellissimo questo concerto, mamma, grazie”.

È stato bellissimo questo concerto, Boss, grazie.

mercoledì, maggio 29, 2013

Parole dette e non dette, come è andata a finire

“Perché quando mamma e papà sono arrabbiati se la prendono con me?”
“Che cosa devo fare se amo una ragazza? Glielo devo dire?”
“Perché quando scuoti il pene lui si ingrandisce?”

Sono alcune tra le domande fatte dai bambini durante il percorso di Parole dette e non dette, il progetto di prevenzione dagli abusi svolto nelle quarte classi della scuola di mio figlio, di cui ho parlato qui.

Domande sulle relazioni, sui sentimenti, sulle emozioni, quasi mai sulla sessualità. Che forse è una cosa ancora lontana per dei bambini di 9 anni, l’età target dei pedofili, come ci ha ripetuto la psicologa dell’associazione L’Ombelico, l’ennesima volta che le veniva chiesto: “Perché proprio in quarta? Non è troppo presto?”.

Domande da cui emerge che noi, le famose famiglie normali, siamo talmente orientate al fare che ci dimentichiamo del sentire. Grandi e piccoli, indistintamente. Tanto che, ci raccontava la dottoressa, durante un incontro con dei genitori era emerso che loro, gli adulti, non sono mica più in grado di riconoscere e riprodurre delle emozioni, per quanto familiari esse siano. Come se questo mondo non fosse funzionale alla vita. Come se davvero ci illudessimo di poter non farle trasparire, le emozioni, da ogni gesto, da ogni parola, da ogni scambio con gli altri.

Eppure nel riconoscimento delle emozioni e nell’uso dell’istinto sta la prima difesa – per i bambini dai pedofili, e per gli adulti, mi viene da dire, da tutti gli abusi a cui nel tempo siamo esposti.

Che cosa significhi fare educazione emotiva io non lo so. Non era prevista nel protocollo della mia famiglia, proprio come l’educazione sessuale. Tanto che poi, quando mi sono fatta la mia, di famiglia, forse ho esagerato nella direzione opposta, e non perché ci avessi meditato o ci mediti quotidianamente, ma proprio perché mi è venuto così, naturale. Suppongo che gli effetti di tutto ciò saranno misurati a tempo debito dall’analista di figlio, un giorno, giacché non mi aspetto che potrà permettersi di farne a meno. Ma le cose che costui dovrà analizzare saranno il contrario di quelle che ha analizzato il mio.

Una delle cose riportate dalla psicologa è che si sta creando, nelle scuole in cui si fanno questi corsi, una cultura del rispetto – del corpo e delle emozioni – che è di supporto a tutto: dalla prevenzione alla pedofilia, al bullismo, alla violenza di genere. Questi bambini sanno, conoscono, capiscono. Faranno? Si spera.

Sono cambiate alcune cose tra questo incontro, dedicato alla restituzione di quanto è stato fatto, e il primo, di presentazione del progetto.

Innanzitutto c’erano alcuni papà. Tre o quattro, siamo ancora lontani dalla media consueta di partecipazione paterna alle attività della scuola, ma è già un successo. Magari sapere cosa sanno i bambini è più facile da affrontare – anche per un papà – che sapere cosa stanno per sapere. La paura dell’ignoto non è appannaggio delle donne.

Abbiamo ascoltato le parole dei bambini (tutti rigorosamente anonimi, ovviamente) attraverso il momento finale del progetto: la consegna era scrivere una lettera ad un amico, reale o immaginario, in cui gli raccontavano del progetto. Queste lettere ci hanno fatto pensare molto, ci hanno fatto sorridere, a volte, ci hanno persino fatto rosicare, quando due o tre lettere sembravano scritte, in ordine sparso, da Calvino, da Guido Gozzano e da Pennac (che lo so, mio figlio non scriverà così neanche al liceo. In compenso ha un senso del ritmo che Calvino se lo sogna).

E poi l’atmosfera, in generale, era molto più rilassata. Un po’ da “quello che è fatto è fatto”, per intenderci. Come l’ultimo giorno di scuola, come quando si pubblica un progetto che ci ha fatto molto penare, come quando ci dicono che la persona a cui teniamo è fuori pericolo. Poi ci saranno degli strascichi (qualcuno si porterà una materia a settembre, ci chiederanno sicuramente un sacco di modifiche, la persona a cui teniamo dovrà ancora curarsi), ma che fa. Per oggi è tutto a posto.

Se non è previsto, nelle scuole dei vostri figli, chiedetelo. Qualcosa mi dice che fa un gran bene, non solo ai bambini.

martedì, marzo 05, 2013

Parole dette e non dette. Le paure degli adulti


Fra un paio di settimane nelle quarte classi della scuola di mio figlio inizierà un percorso di prevenzione dell’abuso sessuale. I corsi sono tenuti dall’associazione L’Ombelico e il programma prevede cinque incontri di due ore durante i quali si parlerà di autostima, emozioni, corpo, sessualità, affettività, con l’obiettivo di tracciare dei confini tra quello che è giusto che accada tra adulti e quello che un adulto non deve mai chiedere a un bambino.

Ieri sera c’è stata la presentazione del corso ai genitori da parte di una delle psicologhe che saranno in aula con i bambini. Era presente solo un papà – contro una quarantina di mamme – che è arrivato tardi ed è andato via presto, molto presto. Questo non è un dato irrilevante, perché negli incontri tra genitori a scuola i papà sono molto presenti.

“Le maestre sono piuttosto tiepide su questo programma”, mi fa la mia amica S. “voglio capire perché”. Strano, penso, mi sembra una cosa molto positiva.

Ho preso appunti su tutto in modo molto diligente. Il percorso è bello, ricco, coinvolgente. Spiazzante. Quando è stata pronunciata la parola “sessualità”, infatti, l’atmosfera è diventata densa, sai quando hai l’impressione che se lasciassi cadere una matita, quella galleggerebbe invece di toccare terra? “Spiegheremo che cosa significa fare l’amore”? Cielo.

Le mamme sono chiaramente imbarazzate. La psicologa cerca di usare termini che non evochino, ma ahimè, evocano per forza. Mica abusi, violenza: no, è sufficiente che evochino cosi e cose che in determinate condizioni (e solo presso gli adulti) finiscono gli uni nelle altre. Sarei imbarazzata anch’io, forse, se nel frattempo non avessi maturato la mia espressione da entomologa.

La presentazione finisce, è l’ora delle domande. Le prime sono molto sensate (Noi genitori dobbiamo preparare i bambini? Che fare se manifestano disagio nel parlare dell’esperienza?), fino a quando una delle mamme espone il suo punto di vista. Le sue due figlie maggiori hanno già partecipato al corso, adesso tocca alla più piccola. Hanno molto apprezzato le parti dell’esperienza in cui si parlava di emozioni, ma non particolarmente quelle in cui si parlava di sesso. È proprio necessario? In fondo siamo famiglie “normali”, viviamo in un quartiere “normale”, dove queste cose non succedono.

(Guardavo la faccia della psicologa e mi faceva paura da quanto era verde. Quante deve averne sentite di storie così, di famiglie “normali” che vivono in quartieri “normali” dove queste cose non succedono?).

Senza scomodare le statistiche sulla violenza nelle famiglie normali, altre mamme sono intervenute informando la prima del fatto che nel parco proprio vicino alla scuola, quello in cui ci trovavamo ieri sera, l’anno scorso c’era il classico vecchietto con il classico impermeabile da aprire alla bisogna. E non solo. Un ragazzo che scattava foto ai bambini con un cellulare, un bel pomeriggio di maggio è stato invitato ad accompagnare sottobraccio fuori dal parco due signori con abiti borghesi e sguardi in divisa. Nel nostro quartiere normale.

La psicologa ha ritrovato il sorriso, a quel punto. Non altrettanto le mamme, a meno che non si possa definire sorriso il rictus che piegava le loro bocche da una parte come se stessero inalando i fumi di erbe normali.

Altra domanda: perché proprio in quarta e non in quinta?
Risposta: per due motivi, per dare una continuità (visto che le maestre saranno presenti al corso ed è giusto che rappresentino la continuità per il bambini anche l’anno prossimo rispetto a questo discorso) e perché questa è l’età target dei pedofili. I bambini hanno corpi da bambini ma iniziano a mostrare dei cambiamenti. E poi cominciano ad essere un po’ più indipendenti. Per esempio possono fare brevi tragitti da soli: a casa dell’amichetto, a scuola, a prendere il pane. “No” è il coro muto che si alza dalla platea. No, non vanno da nessuna parte, siamo impazziti?

Sono uscita dall’incontro con molte domande. Non sul corso – ché quelle avrei potuto rivolgerle alla psicologa – ma su di noi, i genitori.

Che non siamo pronti per far crescere i nostri bambini. Che non sappiamo che cosa sanno, loro, di sessualità. Che siamo terribilmente tentati di fare come hanno fatto i nostri genitori: nulla. Che crediamo che una famiglia e un quartiere normale siano una garanzia per loro. Che non siamo in grado di parlare di sessualità (come non siamo in grado di parlare di morte), neanche se questo vuol dire fornire ai nostri figli gli strumenti per vivere più sereni.

Ma forse anche questo fa parte del programma.

giovedì, gennaio 31, 2013

#liberericette Porcospino di tonno di Roberta

Roberta è una mia cara amica e di questa fantastica iniziativa non aveva capito niente. Così le ho detto "mandami una ricetta e basta" e lei l'ha fatto. Ed ecco la sua ricetta.

Porcospino di tonno





Ingredienti
125 gr. mascarpone
125 gr. Tonno all'olio di oliva (peso scolato)
pinoli
1 chicco di pepe
2 chiodi di garofano

Preparazione
Sminuzzare il tonno, dopo averlo scolato, con un minipimer o nel frullatore.
Aggiungere il mascarpone al tonno e mischiare fino a farlo diventare omogeneo e, con le mani, ottenere una palla.
Lasciare riposare in frigo per qualche ora (4/5 minimo)
Estrarre dal frigo e modellare la forma del corpo del porcospino.
Ricoprire il tutto infilzando i pinoli uno ad uno, lasciando libera la parte del muso.
Utilizzare un chicco di pepe per il naso e 2 chiodi di garofano per gli occhi.
Servire con pane abbrustolito o focaccia su cui spalmare.

Le storie sono per chi le ascolta, le ricette per chi le mangia. Questa ricetta la regalo a chi legge. Non è di mia proprietà, è solo parte della mia quotidianità: per questo la lascio liberamente andare per il web.

#liberericette Le lagane e ceci

Nonostante ultimamente mi diletti un po’ di più in cucina, i fornelli non sono proprio la mia tazza di tè. Però potevo forse rinunciare ad una giornata così speciale, in cui tutti blog si trasformano in tavole imbandite? Ovviamente no. E allora sono andata di nuovo a prendere un piatto tipico della cucina lucana. Che amo per tre motivi.

Il primo è che è buono. Punto. Provate e sappiatemi dire.

Il secondo è che veniva chiamato “il piatto del brigante”. Era infatti uno dei piatti più gettonati dai briganti che nella seconda metà del XIX secolo si facevano il mazzo nei boschi della Basilicata. E io amo molto i briganti.

Il terzo è che è un piatto con una storia. Ne ha parlato Orazio (il poeta, quello latino nato a Venosa nel 65 a.C.) nelle sue Satire (VI, libro I): " ...inde domum me ad porri et ciceris refero laganique cantinum ", " quindi me ne ritorno a casa per mangiare una scodella di porri, ceci e  lagane ". Ed è la prima volta che si parla di pasta in letteratura. 
Le lagane sono strisce di pasta larghe circa 4 cm e lunghe 7-10 cm, fatte con farina e acqua, senza uova. L'origine etimologica della parola si perde nel greco antico (laganou era il termine usato per indicare il mattarello, che nel dialetto è diventato laganaturo): indicava un disco di pasta fatta con acqua e farina, arrostito su una pietra rovente e poi tagliato a strisce; queste venivano unite a legumi o granaglie e di solito consumate come una zuppa.
Il celebre gastronomo Apicio, nel suo De re coquinaria designa con il nome di lagane delle sfoglie di pasta condite con il garum (un una salsa liquida, piccante, di interiora di pesce e pesce salato che gli antichi Romani aggiungevano come condimento a molti piatti, oppure con la carne, sovrapposte a strati, in una versione antenata delle nostre lasagne).

E insomma bando alle ciance, ho fatto anche un po’ di cultura e adesso passiamo alla ricetta.

Lagane e ceci





Ingredienti (per 4 persone)
Per le lagane: 400 g. di farina (semola rimacinata), acqua calda, un pizzico di sale
Per i ceci: 300 g di ceci (già messi a bagno), 2 pomodori pelati, due cucchiai di olio, aglio, prezzemolo, sale q.b., peperoncino

Preparazione
Preparare un sughetto leggero facendo soffriggere uno spicchio d’aglio in due cucchiai di olio e aggiungendoci poi i pelati e infine il prezzemolo. Aggiustare di sale e aggiungere il peperoncino (io non lo metto nel sugo se no il pupo si sturba, lo aggiungo direttamente nel piatto, al momento di servire). Quando il sugo è a buon punto aggiungere i ceci e lasciar cuocere per una mezz’ora.


Intanto, preparare le lagane. Impastare farina, acqua e sale, fare una sfoglia sottile, come per le lasagne, e tagliarla a strisce di circa 3-4 cm. Poi tagliare le strisce diagonalmente, in pezzi di circa 7-10 cm di lunghezza. Le lagane sono irregolari, quindi andate pure tranquilli.

Cuocere le lagane in abbondante acqua salata. A metà cottura scolare lasciando un po’ di acqua e aggiungere il sugo con i ceci.

Servire accompagnando con un buon Aglianico del Vulture.


Buon appetito!

Una cosa importantissima che copincollo da Yeni Belqis, che ha dato il via al circo di quest'anno. Tutti i partecipanti alla cucinata collettiva sono invitati a donare l’equivalente del costo del piatto che cucineranno alla mensa del Centro Astalli. Se il web può essere solidarietà, calore, amicizia, non vogliamo dimenticare tutti quelli che sono soli, invisibili, al margini delle nostre città. L’idea è che in questa nostra festa in cui ognuno porta qualcosa ci sia un certo numero di posti a tavola per far sedere anche chi si trova in un Paese straniero dopo essere fuggito dalla guerra e dalla persecuzione.

Poi, dopo il 31 gennaio, chi lo vorrà potrà partecipare a un turno di volontariato alla mensa del Centro Astalli, oppure a un incontro per capire meglio la realtà dei rifugiati in Italia.

Le storie sono per chi le ascolta, le ricette per chi le mangia. Questa ricetta la regalo a chi legge. Non è di mia proprietà, è solo parte della mia quotidianità: per questo la lascio liberamente andare per il web.

#liberericette Lasagna verde vegana alla Farina


Com’è tradizione (se due anni fanno una tradizione, direi di sì) questo blog ospita ricette senza fissa dimora. La mia amica Francesca ci regala una ricetta vegana, eccola qua.

Lasagna verde vegana alla Farina

Difficoltà: facile
Tempo: 45 minuti

Ingredienti (per due persone)
 - un panetto di tofu compatto da 200 g. di forma spessa e quadrata
- 250 g. di broccoli
- 100 grammi di fagiolini interi
- 1 dado e mezzo vegetale
- mezza cipolla
- 5 cucchiai di olio extra vergine d’oliva
- una tazzina di salsa di soia
 - sale e pepe
- a piacimento: formaggio pecorino grattugiato, semi di sesamo tostato, basilico fresco

Preparazione 
1)  Lavate e taglieate a cimette il broccolo, privandolo delle foglie e dei gambi più duri e mettetelo a bollire per 15 minuti in una pentola capiente con acqua e un dado.

2)  Tagliate la cipolla finemente e mettetela a soffriggere con un cucchiaino d’olio e.v.o. e un cucchiaino di salsa di soia.

3)  Scolate i broccoli e passateli in padella, rigirando spesso e lasciandoli cuocere ed insaporire nella cipolla. Per 10 minuti. Se occorre aggiungete un po’ d’acqua usata per la bollitura del broccolo. Lasciate l’acqua bollente in caldo. La riuseremo.

4) Mettete in acqua per 15 minuti circa i fagiolini. Dovranno risultare cotti, ma croccanti e solidi.

5) Tagliate il tofu a fette, incidendo il panetto longitudinalmente per ottenere delle lasagnette abbastanza sottili, ma non troppo (meno di mezzo centimetro)

6) Fatele passare velocemente in un bagnetto di salsa di soia e se vi piace, aggiungete un po’ di succo di limone.

7) Mettete in una piccola padella 3 cucchiai di olio extravergine e fatelo scaldare. Aggiungete le “lasagne” di tofu e fate dorare.

8) Riprendete il broccolo in padella e frullatelo insieme a ½ dado e a un bicchiere della sua acqua di cottura.

9) Prendete i piatti da portata e stendete uno o due cucchiai di crema di broccolo, adagiateci sopra la lasagna di tofu calda, un altro strato di crema di broccolo e poi uno strato di fagiolini uno accanto all’altro a formare un altro strato. Continuate così in modo da avere tre piani.

10) Per finire potete completare con una spolverata di grana, una manciata di semi di sesamo tostati,  oppure delle foglie di basilico fresco.

Le storie sono per chi le ascolta, le ricette per chi le mangia. Questa ricetta la regalo a chi legge. Non è di mia proprietà, è solo parte della mia quotidianità: per questo la lascio liberamente andare per il web.

venerdì, gennaio 18, 2013

Il 31 gennaio liberiamo una ricetta!


Che poi per me, che in generale non amo cucinare, è abbastanza singolare.

Singolare che ieri sera sia passata a fare una spesa essenziale perché poi dovevo cucinare una cosa particolare.

Singolare che abbia chiesto a mio figlio di farmi da reporter e scattare, prevedendo che con le mani sporche l’aifon ne avrebbe sofferto.

Singolare che lui mi abbia concesso la sua collaborazione a patto che gli concedessi un video della ricetta (“almeno qualche secondo, solo la presentazione se vuoi, ti preeego”) – ma la trattativa è ancora in corso.


Singolare, infine, che su questo blog così lontano dai fornelli presto si troveranno ben 3 (tre) post di fila che parlano di spignattamenti. A me.

Però l’anno scorso è stato quasi uno scherzo. Io, fedele alla mia linea, non ho spadellato ma ho ospitato con grande piacere Supermambanana. E insomma, ci siamo divertiti e abbiamo deciso di ripetere la cosa quest’anno.

Il giorno è il 31 gennaio, e ci sono delle regole (poche e semplici):

1. Pubblicare un post il 31 gennaio (possibilmente intorno alle 11, ma l’ora non è fondamentale) e chiamare il post “liberiamo una ricetta: (titolo della ricetta)”. Alla fine della ricetta si metterà la frase: “Le storie sono per chi le ascolta, le ricette per chi le mangia. Questa ricetta la regalo a chi legge. Non è di mia proprietà, è solo parte della mia quotidianità: per questo la lascio liberamente andare per il web“. Poi inserire il link del post sulla pagina http://www.mammafelice.it/2013/01/14/liberiamo-una-ricetta-edizione-2013/.

2. Chi ha un profilo Facebook è caldamente invitato a mettere per quel giorno come immagine del profilo il logo dell’iniziativa: il Keep calm and free a recipe su fondo rosso. (qui il link ad una delle pagine che creano “keep calm” http://www.keepcalmstudio.com/)

3. Quest’anno si vuole che l’iniziativa coinvolga più persone possibile. Pubblicizzatela, quindi, in anticipo sui vostri blog, su Facebook, su Twitter. Si propone gli hashtag #liberericette #freearecipe. Più gente aderisce, meglio è.

4. Non indicate in anticipo che ricetta posterete. Conserviamo l’effetto sorpresa!

5. Divertitevi!

Molto importante! Chi non ha un blog può chiedere di essere ospitato sulla pagina Facebook degli scambi di ospitalità (nella stessa pagina si può dare la propria disponibilità a ospitare).

Come deve essere il post? Il tema della ricetta è libero. Si suggerisce di arricchirlo almeno con una foto del piatto. Ma se non ce la fate non fa nulla.

Su, su, in cucina!

mercoledì, dicembre 26, 2012

Madeleine natalizia: il brodo di tacchino con i cardi

Quando esci dalla tua famiglia d'origine e te ne crei una tua, tra gli innumerevoli cambiamenti c'è quello, spesso sottovalutato, delle tradizioni. Se, come nel mio caso, si proviene da posti diversi, le tradizioni familiari devono essere rivedute e corrette. Nel nostro caso non abbiamo tenuto molto, sia per la difficoltà di rendere compatibili abitudini e lessici relativi, sia perché né io né mio marito vi siamo mai stati troppo legati. Il Natale è una di queste cose.

Quest'anno, però, quando per vari motivi siamo rimasti entrambi "senza famiglia", mi è venuta voglia di riprendere per noi una madeleine, un piatto tipico del pranzo di Natale di casa mia, il brodo di tacchino con i cardi. Ci sono un sacco di varianti, naturalmente, a questa ricetta, praticamente una per famiglia. Io ho seguito quella che mi ha passato mia madre. Al telefono, 10 minuti prima di andare a fare la spesa. E per celebrare degnamente l'evento, ho realizzato il piatto twittandone tutte le fasi. Una nota: il brodo con i cardi è un antipasto, anche se non sembra.

Ed ecco la ricetta (da foodblogger per caso, quindi non aspettatevi troppa precisione, soprattutto nelle quantità e nei tempi. Ho fatto a occhio, come mi ha raccomandato mia madre al telefono).



Ingredienti
Un cespo di cardi
Un cespo di cicoria riccia (io l'ho trovata come "insalata riccia", si sa che le verdure hanno un nome diverso in ogni posto)
Un cespo di cicoria catalogna
Una coscia di tacchino
Un pezzo di biancostato
(per le polpettine) Trita di vitellone, mollica di pane, un uovo, aglio, prezzemolo, latte, sale
(per il brodo) Sedano, carota, cipolla
Pentole grandi!

Procedimento
Con la trita, preparare le polpettine. Io ho usato il pangrattato al posto della mollica di pane (sacrilegio ma non troppo, ha funzionato lo stesso), e poi uno spicchio d'aglio e del prezzemolo tritato, un po' di latte per ammorbidire l'impasto, un uovo, sale e pepe. Le polpettine si chiamano "ine" perché devono essere piccole, quindi non barare!



Una volta pronte le polpettine si può mettere su il brodo. Io l'ho fatto un po' misto, con tacchino (coscia) e biancostato di vitello fatti a pezzi non troppo grandi.

Messo su il brodo si può passare alle verdure.

Ed ecco i cardi. Sono come dei sedani enormi, e molto più fibrosi. Quindi vanno mondati molto accuratamente, se no a tavola ci si strozza. Un'altra particolarità è che lasciano le mani nere, per cui per pulirli io ho usato i guanti di lattice.


Una volta mondati e fatti a pezzi, fari cuocere in abbondante acqua salata (si dice così, no?). Io li ho fatti bollire almeno un'ora prima che diventassero più morbidi di un pezzo di legno stagionato.






Per le altre verdure, invece, bastano 10-15 minuti in acqua salata e bollente. Nel frattempo, il brodo sarà praticamente pronto, perciò posso togliere la carne, che terrò da parte, e andare a chiedere in prestito alla vicina un pentolone abbastanza grande da contenere il tutto :)


Unisco al brodo alle verdure, nel pentolone della vicina. Cerco di aggiungere anche le polpettine, non è detto che ci riesca perché tendono a sfuggire da tutte le parti. Faccio andare per 20 minuti circa.


E alla fine metto tutto insieme e ce lo lascio almeno per 4-5 ore, così il sapore si amalgama. Alè!

Il lesso si può servire a parte, mentre il resto va nel piatto. Ottimo con un po' di grana.


Nota finale: era buonissimo!