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mercoledì, giugno 05, 2013

Il Boss e il bambino

Alla Città dei bambini di Genova c’è, tra le tante cose, uno specchio che un po’ riflette e un po’ fa passare l’immagine. Il gioco è che ci si siede dalle due parti, si regolano gli sgabelli finché gli occhi di entrambi sono alla stessa altezza e si guarda l’immagine: i volti ne risultano “mescolati”. L’ho fatto con mio figlio, domenica. Ma non si è mescolato niente. Era la stessa faccia, con i capelli più lunghi o più corti (poco, più corti).

Gabriele è sempre stato la fotocopia di suo padre. Le foto del papà da piccolo le abbiamo spacciate per sue anche con le nonne, anche con lui, una volta.



Poi lunedì sera, mentre andavamo al concerto del Boss, insieme a Chiara e Lorenza, Paola mi fa: “Ma tuo figlio è uguale a te!”. Lo so, Paola, solo da 24 ore, ma lo so.

È stato il battesimo di San Siro, per Gabriele. Roba che se si aspetta che sia sempre così sarà ben dura. Perché dal terzo anello, di fronte al palco, Bruce si vede piccolo, ok, ma il resto dello stadio è uno spettacolo che fa accapponare la pelle. (Che poi è stupendo. Da lì si vede lo skyline di Milano, con la torre Velasca, il Duomo e i grattacieli. E in mezzo Bruce Springteen).

Gabriele è arrivato su correndo per le rampe delle torri. Lui, correva. Noi annaspavamo dietro. Poi abbiamo preso posto e lui mi fa “grazie, eh. Non lo sai che ho paura dell’altezza?”. Merda. Mica me lo immaginavo che fosse così in alto. Ok lo skyline, ma siamo decisamente in alto. Finalmente è iniziata la musica. E io ero ancora preoccupata per l’altezza (il pupo se ne stava attaccato alla sedia che neanche se l’avessimo incollato col bostick) quando, doveva essere la terza canzone, Gabriele cambia faccia, gli vengono i lucciconi e scoppia in un pianto dirotto. “Voglio andare a casa. Voglio andare a casa, per favore”. Lo coccolo un po’, magari questa cosa dell’altezza è più seria di quanto pensi. Poi ho un’illuminazione. “Gabri, è per la canzone?” “Sì. Mi emoziona troppo”.

Eccolo qua. Mi sento di nuovo seduta da una parte dello specchio alla Città dei bambini, ad osservare attonita me con sulla testa i suoi capelli e lui con i miei. È il mio problema con la musica, soprattutto quella dal vivo. Mi emoziona troppo. E piango come una fontana. Come Gabriele. E lui piange e Bruce Springsteen canta e io mi sento in colpa. Nell’ordine:

1) Per aver preso un posto troppo in alto
2) Per aver costretto Gabriele a ripassare storia di corsa, che domani ha una verifica (no, ma scusate, una verifica 3 giorni prima della fine della scuola?)
3) Per averlo portato a sto cazzo di concerto invece di lasciarlo a casa con la tata.

Poi il mood è cambiato. Gabriele è andato a fare un giro con suo padre e quando sono tornati cantava e ballava. Abbiamo cantato e ballato fino a quando non gli si sono chiusi gli occhi per il sonno. Il che accadeva verso la fine. (64 anni e cantare suonare ballare senza interruzione per 3 ore e mezza. Al 120° minuto ha steccato, è rimasto calante per qualche secondo, ma il fatto è che.)

Non siamo rimasti per il bis. Ci siamo avviati con questo ragazzino lungo e stretto lungo le rampe in discesa e dopo un paio di curve è iniziata Born to run. Gli dico “Gabri, sai come si intitola questa canzone? Born to run” “Ah sì? Sei pronta?” “Sì” “Via!”

Siamo scesi dalla torre correndo come forsennati. Lui è arrivato cinque minuti prima di me, se ne stava appoggiato al muro ridendo insieme al tipo della sicurezza. E quando ho tagliato il traguardo anch’io abbiamo ballato finché la canzone non è finita, e tutti ci guardavano, e lui diceva “è stato bellissimo questo concerto, mamma, grazie”.

È stato bellissimo questo concerto, Boss, grazie.

mercoledì, marzo 16, 2011

Ravanei, remulass, barbabietul e spinass tri palanchi al mass




“Ma che cosa sono i remulass?”
“Mamma, tu non sei milanese, non la puoi cantare”.

E certo. Tecnicamente Gabriele è l’unico milanese di casa, e viene tirato su bene in questa sua alterità etnica dalla tata e da suo marito, milanesi fino nel midollo.

E insomma ieri sera c’è stato il concerto. Un centinaio di bambini di seconda (“cento e qualcosa, mamma, cento e qualcosa”) hanno aperto il concerto per il Tredesin de Mars che si è tenuto nell’aula magna della Bocconi. Tra di loro, ovviamente, Gabriele, ugola spianata e torture alla zip della felpa per portare il tempo.

Dall’aula gremita di parenti e amici vedevo i ragazzi più grandi, quelli delle medie, passare e ripassare da una parte all’altra del palco, prima dell’esibizione. E pensavo che me lo ricordo bene, come ci si sente in quel momento. Non c’è emozione, non è il momento. Ci si sente come quando si è esattamente dove si dovrebbe/vorrebbe stare. Sei il padrone del palco. È casa tua. E ti senti anche, in quel momento, superiore a quelli che stanno di sotto, quelli che tra un po’ saranno i tuoi giudici, ma che sono anche quelli venuti lì per te, per ascoltarti, per condividere la tua emozione. Però quando sei lì, che passi e ripassi, non ci pensi. Hai cose da fare, persone da cercare, ultimi aggiustamenti da discutere. E ti senti sicuro e forte come nella tua cameretta, dove gli altri non possono dirti cosa devi fare e come ti devi sentire.

Ho visto anche, tra questi ragazzi, due dei tre fratelli rom che suonano il violino in metropolitana, alla stazione del Duomo. Li vedo da sempre, da quando la più piccola doveva avere al massimo 5 anni, e sono sempre stati i più bravi, tra i musicisti del Duomo. Mi sono chiesta spesso chi fossero, che vita facessero. Vederli lì è stato strano, erano fuori contesto, tutti pettinati con le loro trecce nerissime e lunghissime, in completo nero e camicia bianca. Che non somigliavano per niente a tutti gli altri ragazzi, perché avevano un’altra espressione, sembravano tremendamente più grandi, più seri, più padroni ancora del palco e forse anche del pubblico.

I piccolini hanno cantato “La bella la va al fosso”, canzone popolare milanese a quanto pare conosciuta da tutti tranne che da me, prima di questo momento. La storia – a beneficio di quelli come me – racconta di come questa signora, facendo il bucato, abbia perso l’anello nell’acqua (“non è un anello qualsiasi, bada, è la vera, la fede nuziale”, mi dice Emanuela, che la canzone la conosce assai bene, soprattutto per le sue riletture sceneggiate dagli scout attorno al fuoco). Vede un pescatore e gli chiede di recuperargliela. E il pescatore che fa? Accetta, ovviamente, ma a una condizione. Qui la versione cantata dalla creature è più innocente: il pescatore vuole in cambio “un basin d’amor”. In altre versioni il “basin” è qualcosa di più ampio e approfondito. Che cosa non si fa per recuperare la pace coniugale.

N.d.r.: il remulass è il rafano. Come i ravanelli, potente afrodisiaco.

martedì, novembre 18, 2008

Intercettazioni metropolitane

Entrano in due, è evidente che fanno la stessa strada, insieme, tutti i giorni, e che sono diretti nello stesso posto. Stanno chiacchierando fitto, ma non riesco a capire niente. Per qualche minuto rimango nella convinzione che parlino olandese o fiammingo. Alla fermata successiva riconosco qualche parola. Saranno bergamaschi o bresciani.

Collega A: "Quando mi metto l'abito mi sento un coglione"
Collega B: "Guh"
Collega A: "Soprattutto la sera, eh. Perché la mattina..."
Collega B: "Guh!"
Collega A: "Eh! Uh! La mattina mi metto tutto bello, la camicia tutta stirata, perfetta, le scarpe pulite..."
Collega B: "Guh! Guh!"
Collega A: "... invece la sera no, mi metto certe camicie con certe pieghe..."
Collega B: "Guh! Guh! Guh!"
Collega A: "E poi la mattina, dopo che mi sono fatto bello, mi rendo conto che l'ho fatto per il computer"
Collega B: "Guuuuh! Guh! Guh!"
Collega A: "Allora ieri mattina ho acceso il computer e gli ho detto: 'Uh! Non mi dici niente, non vedi come mi sono fatto bello? Per te, eh? Solo per te!"

Alla fermata successiva, exit colleghi. Se trovo un dizionario italiano/bergamasco, magari in un update vi dò anche la traduzione del discorso del collega B.

giovedì, luglio 17, 2008

La musica dell’alba

L’abbaino della mia camera da letto dà sul cortile. Di fronte, dà sul cortile anche una terrazza frutto di una recente ristrutturazione che ha trasformato in un sontuoso attico-e-superattico degli sfigatissimi solai. Il proprietario di questo ben di dio è un incrocio tra Briatore e un artista operaio: dell’uno possiede (in minima, forse infima parte, suppongo) il patrimonio; dell’altro lo spirito pratico e il gusto un po’ challenging. Gusto che, fra le altre cose, gli ha fatto acquistare uno stereo esoterico, e musica buona, molto e molta. Il resto è cene in terrazza, mattinate musicali a base di jazz (ma di quello giusto per la mattina, mi spiego?), ogni tanto telefonate “riservate” in terrazza. Un giorno glielo dico, che ci sono almeno una trentina di famiglie che si fanno gli affari suoi, in questi casi.

Il mio dorato vicino, però, deve soffrire di insonnia. Perché stamattina, verso le 5, nel mio modesto abbaino si sono insinuate le note di un De Andrè d’annata, senza alcun dubbio suonate dallo stereo esoterico. Alle 5 e mezzo mio marito voleva lanciare una scarpa nel terrazzo. Gli ho fatto notare che poi sarebbe stato imbarazzante aggirarsi per l’ufficio con una scarpa sola. Lui ha soprasseduto.

Oggi lo so, dopo la pausa pranzo mi calerà la palpebra. Ma rifiuterò la musica di sottofondo.

lunedì, aprile 07, 2008

Sapessi com'è strano prendere il caffé a Milano

Io: "Certo che a Milano è sempre più difficile trovare un caffé buono"
R: "Beh, basta vedere che uso si fa dell'acqua da accompagnare al caffé"
Io: "..."
R: "Nelle altre città si beve l'acqua prima, per pulirsi la bocca. A Milano, invece..."
Io: "Ok, ordiniamo. Ci porti anche dell'acqua, per favore"