Inspira, espira.
La consapevolezza del respiro è una condizione che si verifica solo in determinate, eccezionali, situazioni. Ad esempio se fai un corso di yoga, se devi partorire, se canti o suoni uno strumento a fiato. La consapevolezza dura per il periodo esatto in cui sei impegnato nell’attività che ti porta a controllare il ciclo inspira-espira (questo non vale nel caso del parto, perché quando sei lì l’unico pensiero è che finisca in fretta) e, in qualche misura, te la porti dietro nello spirito dell’applicazione di una tecnica. È strumentale, ed è quasi esclusivamente giocato sul piano meccanico, fisico, della funzione respiratoria resa volontaria (o quanto meno controllata volontariamente).
Inspira, espira.
Poi c’è l’assenza di respiro – che non vuol dire morte. I bambini si tappano il naso e la bocca fino a diventare blu se vogliono ottenere qualcosa. E poi ci sono quelli che trattengono il respiro per vedere i pesci del Mar Rosso o per stabilire un record. Trattenere il respiro non è una cosa che si fa per niente. (Naturalmente non è questo il caso delle persone che si dimenticano di respirare mentre dormono, e così in pratica non sono mai in uno stato di sonno profondo, pur non soffrendo di insonnia. Questi non hanno un’alternativa, se non curarsi.) Trattenere il respiro serve ad ottenere qualcosa: l’attenzione dei genitori o un giocattolo nuovo, una vista esclusiva sul Pesce Napoleone o la citazione nel Guinness dei Primati.
Oppure a sopravvivere.
Inspira, espira.
In qualche misura trattenere il respiro è un modo per non relazionarsi con il fuori. È il diventare un avatar di se stessi. Perciò al sabato mattina, per quanto possiamo avere davanti una giornata piena (di tutte le cose che non abbiamo fatto nel corso della settimana trascorsa), la sensazione è quella di ricominciare a respirare, mettere a riposo l’avatar e ricominciare a vivere. Non sopravvivere, vivere. E la domenica eccolo lì, il respiro che si rompe, il fantasma dell’avatar che bussa alla porta per tornare in servizio.
Inspira, espira.
Questo post disordinato e inconcludente nasce sulla scia di un intervento di Maurice (sorry, non riesco a linkare il post in questione, che succede?) in cui si parlava del lavoro. In un commento dicevo che il “vivere bene” a cui è funzionale il lavoro non è necessariamente in relazione con la qualità della vita. Credo anche che sia il vivere bene sia la qualità della vita siano concetti relativi: relativi a dove vivo, a quanti anni ho, alla mia condizione familiare, alla mia educazione e al tenore di vita cui sono stato abituato dalla mia famiglia di origine. Ma, in senso assoluto, se non si respira non si va da nessuna parte.
Inspira, espira.
4 commenti:
... mi manca la tua foto sorridente!
catj
La consapevolezza del respiro, per noi yogini è la consapevolezza di noi stessi, corpo e anima, e allora, ogni volta che qualcosa sfugge, ecco che ci si ferma un attimo, si fa un respiro profondo, attenti alla nostra interiorità, si raddrizza la schiena, si butta la nuca indietro, si guarda il mondo negli occhi e lo si affronta con una nuova serenità.
Questo fine settimana ci provo, sono giorni che vado in apnea appena entro in ufficio e il colore verde non riesco ad abbinarlo con niente ;)
Bella la scelta minimalista del Blog, ma cos'è il nuovo avantar ?
@ labelladdormentata: non è banale, e la prospettiva sempre quella dell'acquisizione di una tecnica. ma se "automaticamente" smetti di respirare?
@popale: l'apnea da giorno feriale è quello che succede anche a me, e nn mi piace per niente. invece il nuovo avatar è un pezzo di una borsetta della mia collezione :)
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