Leggo questo post di [mini]marketing: in sintesi, Gianluca osserva come spesso le ricerche di mercato abbiano clamorosamente cannato le previsioni in merito a servizi per/di social media, e attribuisce questo fallimento all’incapacità di ascoltare i feedback degli utenti, dal momento dell’effettuazione della ricerca alla nascita del servizio.
È questo un tema a cui mi sono appassionata nel corso dell’ultimo anno, giungendo ad alcune conclusioni che qui riassumo.
Gli attori coinvolti in una ricerca di mercato sono tipicamente due: l’azienda committente e l’istituto di ricerca. Entrambi si appoggiano ad un corpus di convinzioni maturate nei decenni, che riguardano principalmente la metodologia impiegata.
Per un cliente il focus group è una metodologia affidabile e che, in qualche misura, gli consente di mantenere un certo controllo della situazione: durante lo svolgimento dei fg il cliente è spesso “dietro lo specchio”, vede le persone interagire, sente quello che dicono, e inizia – non sempre a proposito – a trarre le sue conclusioni. Il valore aggiunto dell’istituto è nelle competenze di chi ha elaborato la traccia e svolge poi l’analisi. E anche quando il report non coincide del tutto con quello che il cliente ha sentito, in generale non si fa fatica a fargli accettare risultati non proprio in linea con la sua idea.
L’istituto, da parte sua, attribuisce al ricercatore, nella fase di raccolta delle informazioni (il focus, appunto, ma anche le interviste individuali), un ruolo di attore neutrale verso l’argomento che sta indagando. In altre parole, non esprime mai un’opinione personale, ma ha solo una funzione di moderazione e animazione della conversazione.
Per molte cose, questo approccio funziona: se devo testare un concept di prodotto o una campagna pubblicitaria, è abbastanza evidente che la mia opinione personale può essere “drogata” dalla conoscenza delle motivazioni che hanno portato a certe scelte, e dunque un mio intervento personale in merito sarebbe fuorviante.
Le cose cambiano quando si parla di Rete. Cambiano perché la Rete, nella sua parte abitata, è una comunità. Una comunità assai particolare, trovo, perché è insieme comunità di pratiche e comunità interpretativa. Che significa? Che i suoi membri sono profondamente consapevoli – essendo anche i creatori dei contenuti – di quelle motivazioni che, nel caso della campagna pubblicitaria, sono venute dall’alto. In altre parole: se l’intenzione (chiamiamola così) del marketing/agenzia è, per l’utente finale, qualcosa che sta nella testa nel marketing e dell’agenzia, e gli viene calata dall’alto, molto diversa è l’intenzione che muove gli utenti attivi della rete rispetto ai servizi che utilizzano. Loro sanno perché, e perché in un certo modo e non in un altro. Lo sanno e lo sanno spiegare. Dunque, basta ascoltarli e si avranno tutte le informazioni del caso.
Però il ricercatore è un professionista a cui generalmente non viene richiesta una competenza specifica che lo abiliti a comprendere, decodificare e analizzare informazioni il cui codice spesso è proprio del mezzo. Allora io vedo due cose:
1) il ricercatore che studia la Rete deve conoscerla: posso essere il più bravo psicologo del mondo, ma se non conosco i codici dell’ambiente che sto sudiando, non giungerò a nessun risultato. Esattamente come mi viene richiesta una competenza specifica nel marketing quando devo fare un concept test
2) il ricercatore che studia la Rete deve farne parte, attivamente, per poterla conoscere. Dirò di più: se il ricercatore è riconosciuto dalla comunità, il suo lavoro non può che trarne giovamento.
A questo proposito, un piccolo aneddoto. L’anno scorso conducevo una ricerca sui Social Media che prevedeva un certo numero di interviste individuali. Un giorno, per motivi che ignoro, indossavo la maglietta della BlogFest. Gli intervistati di quel giorno mi sorrisero subito come per dire "ah, c'eri anche tu", furono da subito più rilassati, più disponibili a parlare della loro vita di Rete; non dovevano cercare le parole per spiegare comportamenti e codici a un perfetto sconosciuto, che per di più li stava studiando: ero una di loro, si poteva andare al succo, parlarsi la stessa lingua senza temere di non essere compresi. Quelle interviste furono una miniera di preziose informazioni.
Ovviamente questo approccio non è del tutto ortodosso, ed è più vicino a una certa etnografia che non a quello della ricerca motivazionale tradizionale. E, di conseguenza, è guardato con sospetto. Ma è l’unico modo per parlare con persone *vere*.
7 commenti:
Possiamo dire che è un problema culturale oppure è qualcos'altro?
A presto.
@andrea: non mi spingerei a parlare di problema culturale - forse si abusa un po' di questa definizione. diciamo che è più che altro un problema di adeguamento di discipline e metodologie a contesti diversi da quelli tradizionali. è un po' come quando le aziende vogliono comunicare in rete, ma si credono in televisione. ci vuole tempo, e persone che sappiano guidare il cambiamento. il primo c'è, non ci resta che trovare le seconde
L'accordo con Giuliana è totale.
Anche perchè non conoscendo assolutamente quel mondo, mi ci sono trovata con lei a studiarlo.
E' stato ovviamente interessante, ma a volte faticoso. Questo perchè non conoscevo a fondo i Social Media come Giuli, ma soprattutto non ne facevo parte. Insomma, la classica registrazione ad un paio di Social Network, nulla più.
Inoltre, fare ricerche su questo ambito ti consente anche di sperimentare metodologie assolutamente nuove e più idonee.
Mi è venunta in mente un episodio: nel 2007 ho seguito una ricerca per un cliente, volevano lanciare un Social Network e quindi capire i motivi di utilizzo, funzionalità utilizzate,....
Quella ricerca aveva dimostrato che le persone si iscrivevano principalmente perchè coinvolti da amici. Questo succedeva quando Facebook non aveva ancora raggiunto il successo che ha ora.
Con il cliente ci siamo lasciati augurandoci di rivederci sul quel SN. Io non credo che alla fine lo abbiano lanciato, forse hanno ascoltato i feedback degli utenti..
in pratica stai dicendo: la ricerca tradizionale osserva i pesci dietro il vetro dell'acquario. nell'etnografica diventi un sub per un giorno e nuoti con loro. Ma nella rete per fare ricerca devi ESSERE un pesce....
@miena: eh, lo so, ti ho fatto soffrire :D
@veremamme: esattamente. esclusa del tutto l'ipotesi di poter stare fuori dall'acquario, è necessario viverci dentro, e non per un giorno
Ho letto con calma solo adesso e concordo al 100% con la tua analisi
@copyman:grazie, adesso si tratta *solo* di convincere chi di competenza :D
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