mercoledì, novembre 22, 2006

Il linguaggio del corpo

L’ho visto e ho subito capito. È passato con l’andatura decisa, il passo lungo un po’ saltellante alla Alberto Sordi, e le spalle appena chine in avanti. La testa era leggermente piegata da una parte, anch’essa sporta in avanti. Lungo i fianchi, un braccio stringeva una cartella di documenti, e intanto dondolava vistosamente avanti e indietro accompagnando i passi; l’altro era piegato verso il busto, con una penna in mano (anzi, una matita, da noi si portano molto le matite, da quando un cliente ha iniziato a rifornirci di bellissime matite di legno con la gommina sopra e hanno smesso di comprare penne. Peccato che in tutta l’azienda non ci sia un temperamatite a pagarlo, e così ogni volta che una matita si spunta si va cercarne una nuova in qualche sala riunioni). Non potevo vederla, ma immaginavo perfettamente l’espressione del viso: un sorrisetto appena accennato (lo avresti detto più che altro un rictus), a contestualizzare il tutto, conferendo ad ogni suo gesto sicurezza di sé e certezza che quel qualcosa che stava facendo era fatta bene. Molto bene. Che poteva essere orgoglioso di lui. Perché era diretto dal suo capo e gli stava portando un lavoro. Un gran bel lavoro.
Ho provato a chiamarlo, dovevo dirgli una cosa, ma lui non mi ha sentito: ci sono momenti nella vita di un consulente senior in cui bisogna andare dritto all’obiettivo, senza lasciarsi distrarre.

Eccone un altro. Questo è furtivo, cammina guardando dritto davanti a sé, senza girare la testa verso le stanze. Tiene i pugni chiusi, le braccia leggermente piegate e il passo è leggero come quello di una ballerina, anche se a occhio e croce pesa almeno 80 chili. Arriva davanti a una porta, dà un ultimo sguardo e entra come un ladro. Ti puoi giocare qualunque cosa che si tratta di un consulente che sta andando a fumarsi una sigaretta sul terrazzino.

Se però lo stesso consulente fosse stato diretto da una risorsa (qualunque, tecnica o creativa: le persone si chiamano così, risorse, manco fossero petrolio o grano o acqua), allora il passo sarebbe stato deciso, e l’espressione un po’ corrucciata, le mani ingombre di documenti, mento alto, petto in fuori e pancia in dentro. Che non necessariamente vuol dire che i consulenti siano stronzi, vuol dire solo che passano la maggior parte della giornata in giro da un ufficio all’altro, su e giù per i quattro piani, sempre di corsa, affannati e privi di cellulare, cosicché nei rari momenti in cui sono alla scrivania devono rimettersi in pari con decine di telefonate perse e di email in coda. Si narra di consulenti che nessuno ha mai visto in faccia, la cui presenza sul libro paga aziendale è però garantita dal barista qui sotto che li vede ogni tanto prendere un panino da portare via, di solito quando tutti gli altri sono già andati via. Per fortuna, i tacchi per le donne sono obbligatori solo da manager in su (e “in su” non ci sono donne). Così ci si arrangia come si può, se si è molto discrete e/o sufficientemente trendy si possono anche osare le sneakers senza subire ritorsioni. Al contrario, per i maschi il completo è d’obbligo fina dai gradini più bassi. Si sono ribellati a questa policy solo alcuni stagisti, facendo presente che con quello che gli davano o mangiavano o pagavano la casa o si rifacevano il guardaroba su una bancarella. In genere preferiscono mangiare e riproporre l’abito della laurea (o della cresima, per chi alla laurea non c’è arrivato) finché il lucido nei gomiti non diventa buco. A quel punto la speranza è che il loro contratto cambi.

I manager sono diversi. A parte un paio, che per loro carattere sono sempre in giro, in generale questa categoria è fatta di persone che non si muovono dal loro posto. Dove, per lo più, pensano. Oppure coltivano relazioni che qualcun altro ha intrecciato per loro. Oppure dicono agli altri cosa devono fare, e se gli chiedi una spiegazione o una mano, loro ti rispondono semplicemente: “mi dispiace, su questa cosa non posso aiutarti, non ci capisco niente”. Ah. Sono spesso agghindati come star, le grandi firme si fanno in quattro per loro; te li immagini nel parterre della notte degli Oscar in attesa del loro premio, quello da non protagonisti. Il premio arriva, loro sono sempre più simili a figure mitologiche, metà uomo/donna e metà sedia girevole, con le mani attaccate alla tastiera del loro notebook da mezzo chilo e al telefonino (Blackberry per i più intraprendenti).

Ai creativi è richiesto di avere capelli blu, essere sterili e non possessori di un’abitazione, per non essere un’azienda di vecchi, con troppi mutui e troppi figli. Ovviamente non tutti rispondono esattamente a tutti i requisiti, e per questo sono tollerati dreadlock e capelli semplicemente spettinati. In alternativa, vanno benissimo i tagli asimmetrici, meglio se eseguiti in un salone tipo Aldo Coppola o Orea Malià (che garantiscono il risultato più vicino possibile all’effetto punkabbestia richiesto dalle policy aziendali). Per i vestiti, via libera ai mercatini: più strati hai, più le tue quotazioni si alzano. Per chi proprio non ci sta dentro, c’è sempre la possibilità di vestirsi Dolce e Gabbana, un classico che non passa mai di moda. Scarpe no problem: dall’infradito al sadomaso, dall’anfibio (possibilmente non Doc Martens, che fa troppo bravo figliolo) allo stiletto da zoccola, è ammesso tutto. Purché ci si sappia adeguatamente trascinare per i corridoi, usando un lessico non necessariamente urbano (eventualmente anche smadonnando un po’) e non necessariamente italiano, dicendo “fico” e “cacare” invece di “figo” e “cagare”, e avendo sempre l’espressione di chi sa che anche oggi prima delle 11 non andrà a casa (il che è quasi sempre vero). La direzione delle risorse umane auspica inoltre che, all’uscita, ci si rechi in qualche luogo ameno dove abusare di alcool e sostanze psicotrope. Mostrandone i segni il giorno dopo, così che si possa dire: “Questi creativi! Sempre con la testa tra le nuvole!”.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

E tu chi sei? ;-)

Giuliana ha detto...

indovina indovinello... :-P

Anonimo ha detto...

Punkabbestia?

Giuliana ha detto...

acqua

Anonimo ha detto...

Ah, la Milano da bere...
quanta fatica.

Ciao