Un mio amico architetto metteva in ogni suo progetto un piccolo errore. Non una cosa strutturale, e anzi spesso un errore facilmente individuabile. Quando gli chiesi come mai, lui mi rispose: “La perfezione appartiene solo all’Altissimo”.
Ho pensato spesso a questa affermazione. Ritengo che fosse da attribuire ad un conclamato delirio di onnipotenza, anche. Perciò più che sommamente saggio considero il mio amico sommamente presuntuoso.
Però se si prende la frase da sola, fuori dal suo contesto (che doveva essere più o meno “faccio un errore perché così sfuggo alla hybris della perfezione”), un suo senso e una sua profonda verità ce l’ha.
E infatti se usciamo al di fuori delle cose inanimate, la perfezione è una chimera, e chi la insegue è destinato alla frustrazione perenne. Si sa.
Il problema principale è che l’ossessione per la perfezione ci porta a scambiare la parte con il tutto. Non sono perfetta se non ho i capelli a posto, e allora sono un cesso (l’esempio è calzante, ho accettato i miei ricci molto molto avanti con l’età). O anche: “Che cosa ti ci vuole per pensare di sciare bene? Di essere nella nazionale olimpica?”, mi dice marito, per esemplificare il fenomeno.
E poi le persone che si sentono perfette, o che aspirano all’imperfezione, hanno un grosso limite: si offendono facilmente, e offendono gli altri con disinvoltura, magari senza accorgersene. E offendi oggi, offenditi domani, prima o poi rimani solo. In una perfetta solitudine.
Per questo ho lottato per anni contro il mio mito della perfezione. È stato lungo e doloroso, e anche costoso, per dirla tutta, prima in lire e poi in euro. Ma la cosa positiva è che oggi posso dire: “non ce la faccio”. Non proprio con disinvoltura, ma sicuramente posso considerare l’ipotesi di dirlo con maggiore facilità di una volta.
Tra le varie imperfezioni di cui mi bullo (oltre a quella di non avere mai i capelli a posto e di non essere un’abile sciatrice), ce n’è una che mi pesa moltissimo, ed è questa: non me la sento di fare una presentazione di venti minuti in inglese. Neanche di un quarto d’ora. Anzi, se non ho bevuto un po’, non faccio neanche una chiacchiera da bar in inglese. (Se ho bevuto, ovviamente, non c’è problema. Tipo una volta in discoteca ho parlato un paio d’ore con un avvocato americano molto attraente, che si chiamava Bill. Chissà che cosa ci siamo detti.)
Non è stato sempre così. La mia prima esperienza lavorativa è stata a Parigi, in un’agenzia di pubblicità in cui facevo parte di un coordinamento internazionale. Tra le 26 agenzie con cui avevo a che fare quotidianamente ce n’erano due francofone, due italofone, e tutte le altre che comunicavano in inglese (l’inglese dei popoli più disparati, per giunta). Non ricordo di aver mai avuto problemi con nessuna di loro.
Poi però non mi è più capitato di dover comunicare in inglese per un sacco di tempo, e puff, la favella si è spenta e anche se ho continuato a capire e a leggere l’inglese, poco a poco ho smesso di parlarlo. Del resto trovavo piuttosto bizzarro rivolgere la parola ai miei colleghi pugliesi, napoletani, torinesi e milanesi in inglese.
Ma, anche se era passato l’inglese, non era passata la fissa per la perfezione. Una volta, alla fine di un progetto di ricerca molto complesso ed esteso, mi è stato comunicato che la presentazione, che avrebbe avuto luogo il giorno dopo, sarebbe dovuta essere in inglese, perché erano presenti ricercatori di tutta Europa che avevano lavorato sugli stessi temi. Passai la notte a tradurre e poi imparare a memoria la mia presentazione di semiotica. Una quarantina di pagine in word. Il giorno dopo arrivai alla presentazione, e quando toccò a me me la cavai brillantemente, rispondendo anche alle domande. Quando fu il turno della collega che aveva lavorato con me, invece, lei esordì dicendo: “Mi scuso molto, ma io non parlo inglese. Perciò la mia collega tradurrà la mia presentazione”. Nessuno batté ciglio, trovando la cosa del tutto lecita. E io mi sentii una stupida.
Perciò qualche settimana fa non ci sono ricascata. Stesso copione dell’altra volta, due giorni prima mi annunciano che la presentazione sarà in inglese. Panico. E no, ho deciso di non fare come l’altra volta. Ho chiesto a Flavia di parlare per me.
Non mi è passata addosso come acqua fresca, sia chiaro. Ho dovuto fare un bel training autogeno per convincermi che non parlare inglese non fa di me una professionista meno affidabile. Che l’inglese è un’abilità che va esercitata, e che se vado due settimane a Londra dopo lo parlo eccome. Che tra me che leggo enormi tomi e guardo pesantissimi film in inglese e uno che affronta oggi la “lesson one”, io sono praticamente una madrelingua.
Ma alla fine è passata. E non mi sento una merda per questo (scusate, ho detto questo). Tanto che ho fatto outing, ecco.
Che poi. Parlare inglese mi renderebbe perfetta? Neanche per sogno. Mi rimarrebbero comunque i ricci e una certa goffaggine nello sci.
P.S. dell'imperfezione hanno scritto in mille, ma quelli che a me piacciono di più sono due grandissimi contemporanei, Algirdas Julien Greimas e Rita Levi Montalcini. Fateci un giro.
10 commenti:
Bellissimo post. Proprio quello di cui avevo bisogno oggi. Grazie ;-)
per chi ambisce alla perfezione non basta una vita per arrendersi che la perfezione non è di questo mondo. per quanto mi riguarda ci lavoro tanto e ho idea che continuerò a doverlo fare, a volte cadendo nelle stesse trappole di un tempo.
Belle parole... ne farò senz'altro tesoro quando la mania di perfezione si fa più avanti del solito...anche se, da quando sono mamma, tutta la mia imperfezione mi ha travolto ridimensionando il mio ego in maniera sproporzionata!
A presto
Non ho mai avuto la mania della perfezione, per fortuna. Questo non mi impedisce di migliorare, e nello stesso tempo sapere che la perfezione non esiste mi fa progredire sempre di più. So quindi di non avere una meta, e che sarò sempre in viaggio. Insomma, non avrò mai occasione di annoiarmi ;-)
Il post però è perfetto! Grazie Giuliana. Da una che è indietro anni luce.
@claudia, sono convinta che quasi nulla accada per caso, compreso trovare il post giusto al momento giusto.
@mammanews ce la si può fare. non sarà mai perfetto, però.
@lamammaèsempre la maternità di mette di fronte ad una consapevolezza dell'imperfezione che può essere paralizzante. è la cosa che considero più pericolosa, questa "sproporzione": dal tutto al niente. (anche) per questo ho deciso di farmi aiutare. certe situazioni si possono affrontare solo se c'è qualcuno che ci fa vedere da fuori. auguri :)
@lanterna, sapessi come ti invidio!
@l@nto la perfezione appartiene solo all'Altissimo :D
Io ti amo anche per i tuoi ricci e non ti sopporto quando torni giuliva dopo esserteli fatti stirare.
Ma tanto durano poco... ;->>>
Cito dal film "A qualcuno piace caldo": NESSUNO E' PERFETTO!
Una vera perla di saggezza :-)
Manu
parlo correntemente inglese ma continuo a prendere lezioni di conversazione e oggi che per lavoro ho ricevuto una mail da ny sono andata nel panico. sono perfezionista?!
Posta un commento