Ho acceso la tv durante il pranzo e c’era Flashdance. Un po’ emozionata, mi sono messa a guardarlo, con mio figlio che mi chiedeva cosa fossero gli scaldamuscoli. A parte queste note di colore l’ho trovato lento e tutto sommato noioso, e non ho finito di vederlo. E dire che lo adoravo, che come la metà delle adolescenti di allora volevo essere come Jennifer Beals.
In fondo la nostra generazione è stata fortunata. Non solo per questioni meramente economiche – mediamente le nostre famiglie non ci hanno fatto mancare niente e grandi preoccupazioni per il futuro non ne avevamo – ma perché se una cosa è rimasta di quegli anni 80 è l’idea di sogno. Non il sogno alla Briatore, che semmai è l’esatto contrario, ma il sogno-sogno. La passione. La voglia di raggiungere un obiettivo solo nostro. Talmente nostro che spesso le famiglie non erano d’accordo.
Io sono cresciuta con Saranno Famosi (la serie prima, il film dopo, perché era un po’ spinto e quindi a casa mia era vietato), con Footloose, con Flashdance, appunto. Con storie di ragazzi più o meno della mia età che si facevano un mazzo tanto per un “loro” sogno. E queste storie me le sono portate in casa, come i miei compagni di conservatorio, come le compagne di danza di mia sorella: tutti in lotta aperta con i genitori, perché un figlio che studia il piano è una cosa di cui andare fieri con i genitori dei compagni di scuola, mentre un pianista tra un milione di pianisti sarà al contrario molto probabilmente un disoccupato; dei ballerini non parliamo nemmeno. Eppure non ci perdevamo d’animo. Avevamo Alex, Bruno, Leroy e tutta queste gente qua dalla nostra parte.
(Una mia collega di università, al Dams, un giorno sbottò dicendo: “E via, lo sappiamo benissimo che la maggior parte di noi è qui perché ha visto Saranno Famosi!”. L’oggetto del contendere erano le telefonate che tutti gli anni a maggio ci arrivavano da ragazzi che volevano iscriversi al Dams ma non avevano idea di cosa aspettarsi e ci facevano le domande più assurde, tipo per quando erano fissati i provini. Finché un giorno… Ma questa è un’altra storia).
Noi che cosa stiamo dando ai nostri figli? Una scuola basata sulle performance e non sulla crescita individuale – praticamente un modello aziendale. Talent show dove la competizione viene prima di tutto, prima anche della passione e lontana anni luce dalla solidarietà che fa crescere. Agende serrate che culminano in un mese di passione l’anno, in cui i saggi delle attività più svariate si sovrappongono a formare un’inestricabile foresta di impegni.
Poi dice che non desiderano più niente. Vorrei anche vederli, ad avere ancora voglia di desiderare. E poi sulla base di quale modello dovrebbero desiderare? Tutto ciò che è acquistabile non riesce a stare alla base di un reale desiderio, con buona pace dei signori del marketing. Perché una nuova console non è un desiderio, è una voglia che se ne va, un bene di consumo. “Desiderare” è voler fare l’astronauta, l’equilibrista, il batterista. Ma noi non abbiamo astronauti, equilibristi, batteristi da proporgli, perché non ci sembrano rilevanti, costoro; non ci sembrano funzionali.
Gli abbiamo rubato il futuro? Certo. Ma soprattutto non li stiamo abituando a sognare. E se non sognano non desiderano, se non desiderano non si sbattono, se non si sbattono non hanno futuro. Il cerchio si chiude e pure le vite dei nostri figli.
(Me lo fossi vista fino alla fine, Flashdance, chissà che veniva fuori).