giovedì, giugno 30, 2011

Bambini e tecnologia, mamme e imprenditoria: la vita sociale di una (mamma) blogger

Non se ne esce. Io la mamma l’ho messa tra parentesi, ma poi puntualmente ci ricasco. E mica a malincuore, eh. No no, con tutte le scarpe, tacco 10 che il 12 non ce la posso fare.

E insomma come avrei potuto rifiutare l’invito di Deviot al primo Vodafone Time, un ciclo di aperitivi a tema, il cui argomento della serata era il rapporto tra Internet e i genitori? Come non esserci, se la padrona di casa è Paola Bonomo e le relatrici Lia Celi – un mito – e Antonella Peschechera – un’amica?

Perciò eccomi, a confrontare la mia esperienza con quella di chi al tema ha dedicato un ampio spazio, il portale InFamiglia di Vodafone (per inciso, dello stesso argomento ci siamo occupati a lungo con Sai come me lo immagino, il sito Nesquik dedicato ai genitori, in cui Guglielmo, fantastico adolescente techy, spiega Internet ai genitori. Ecco, questo è il contesto e il mio livello di interesse per la cosa).

Dico la mia. Gabriele si è reso conto dell’esistenza di Internet molto presto. Al nido, per essere precisi. Nido aziendale che chiudeva alle 18, e se a quell’ora non ero ancora pronta eccolo che mi veniva recapitato alla scrivania, con tanto di passeggino. Ho cercato di evitare che incollasse gli occhi al monitor fino ai 2-3 anni, per ragioni eminentemente oftalmiche, ma a parte questo non avrei potuto avere meno remore. Del resto si fa presto. Se il papà fa l’Internet di mestiere da quando Internet non esisteva e si lavorava sulle reti neurali per arrivarci poco a poco, e la mamma ha iniziato a progettare siti quando gli unici siti decenti erano quelli porno, ci vuole poco ad interessarsi.

Quindi il pargolo è stato introdotto all’Internet assai precocemente. Prima con i video su Youtube, poi con i giochi dei siti fatti dal papà, poi con i giochi dei siti fatti dagli amici di mamma e papà. Diciamo che non abbiamo mai negato un tester a nessuno, se ce n’era bisogno.

Ma guardare il digitale con gli occhi di un bambino è tutto diverso. Per esempio per Gabriele è inconcepibile che esistano piattaforme diverse tra di loro e che non si parlino. Lui ha scoperto Spore, un gioco in cui si possono costruire creature fantastiche, sul pc (che consiglio caldamente, è un laboratorio di creatività spettacolare). Ha creato centinaia di mostrini, e un giorno è arrivato Spore anche per la Wii. Dove però la creatura è solo una, puoi modificarla a piacere ma hai dei limiti, dettati dall’adventure in cui è calata. Perciò ben presto è arrivata la richiesta: mamma, puoi portare le creature dal pc alla Wii? E no che non posso, amore, sono due piattaforme diverse (non gliel’ho venduta proprio così, ma il senso era questo). E lui: ma che significa piattaforme diverse, se possiamo vedere i film che stanno sul pc in tv, potremo vedere anche le creature. Ecco. E allora pensavo che sì, è assurdo che ci siano tutti questi limiti, e a poco vale la ragionevolezza professionale. Del resto, non è mica nato così l’iPhone?

Però, però. Noi siamo così, ma non tutte le famiglie sono così. Passo intere serate a parlare ai miei nipoti adolescenti di Facebook e di come va bene e non va bene usarlo, a mettere in guardia amiche un po’ naif su cosa condividere e cosa no sui loro figli. Io ho fatto una scelta un po’ talebana, da vecchia scuola, diciamo così: in rete non metto niente che riguardi mio figlio, non una foto, un video, un riferimento a lui che sia localizzabile. Quando sarà grande, se vorrà, sarà libero di mettere in piazza i fatti suoi autonomamente, ma finché è sotto la mia tutela niente (non considero parte della sua privacy gli sporadici episodi che posto sul blog, quello è più che altro colore locale).

Adesso Gabriele ha quasi 8 anni, e il suo tempo tecnologico è contingentato: 30 minuti di DS (adesso siamo nel tunnel dei Pokemon, ahimè), o di Wii, o di pc. Stop. Finché dura. E se va su Internet ci sono anch’io, anche se lui è perfettamente in grado di muoversi.

Per tornare alla serata: ho conosciuto LaVale! Non ci potevo credere, ho anche fatto un po’ la figura della groopie, ma il suo è stato uno dei primi blog che ho letto, e allora come si può rimanere insensibili? Che poi all’epoca avemmo anche un breve scambio di mail, ma questo non gliel’ho detto.

Invece stasera parlo io. All’aperitivo organizzato da Working Mothers Italy, a chiacchierare di come si fa a fare la mamma imprenditrice della rete. Che sarei io (oddio, che mi metto?). Se siete a Milano passate, saremo al Milk Bar di via Mazzini 20. Sarà un piacere conoscersi personalmente, come dicono i miei amici digital pr.

mercoledì, giugno 22, 2011

La via Emilia e l’ottico anarco-insurrezionalista

Ho sempre pensato che lungo la Via Emilia passi una vena di follia. Non una follia grave, disfunzionale, invalidante; piuttosto una follia che rende le persone particolari, sopra le righe. A crearmi questa convinzione sono stati prima i racconti di mio marito – indigeno di quelle bande – e poi il fatto di averne conosciute un po’, di queste persone.

Un soggetto parecchio interessante è l’ottico anarchico-insurrezionalista di Castelmaggiore, Piacenza.

Va fatta una premessa. Chiunque porti gli occhiali ha un’idea abbastanza precisa di quanto costino, e forse anche del fatto che ci sono poche e difficili enclaves in cui il prezzo può subire dei crolli apparentemente inspiegabili. Il fatto è che il mercato dell’ottica è caratterizzato dal fatto di applicare ricarichi altissimi, che vanno in generale dal 100 al 400%. Quindi, se l’ottico spende 10 per una montatura, poniamo, poi la può rivendere anche a 40 – e a volte anche di più, se l’arredamento del punto vendita è quello giusto. Mica male.

Ora. Tutto comincia con la notizia, non so più quanto tempo fa, che c’è a Castelmaggiore quest’ottico che applica prezzi onesti. Tipo che paghi gli occhiali la metà di quanto li paghi altrove. Quindi, dovendo rifare il parco occhiali al completo, si va. In fondo siamo vicini alla casa di famiglia del coniuge, ci vorrà poco.

E invece. Arriviamo a Castelmaggiore verso le 3 del pomeriggio. Individuiamo il negozio, ma è chiuso. Davanti, 5 o 6 persone evidentemente in attesa. “A che ora apre?” facciamo noi a uno a caso. “Non si sa esattamente, dicono alle 4, 4.30, ma qualche volta anche alle 5”. Ok. Andiamo a bere un caffè. Sono le 15.40 e ora in coda ci sono 8 persone. Alle 16.15 un gelato, e dieci persone. Alle 16.45 apre. Entra il primo.

Per farla breve, noi che siamo dopo 4 clienti (molti ci vanno in compagnia, che intanto si fanno due chiacchiere) entriamo alle 18 circa.

Noi abbiamo in mente gli ottici “normali”: superfici linde, espositori sui muri, cassettini alle spalle. No, non ci siamo proprio. La superficie del tavolo non si vede, è sepolta sotto occhiali fatti, occhiali da fare, montature, prescrizioni. Appoggiate ai muri, vetrine contenenti chissà cosa, ma di certo non montature in esposizione. Alle nostre spalle un espositore con l’unico specchio disponibile, ma piccolo piccolo. Lui è un omino quasi pelato, con la faccia incazzata dei vecchietti da western vecchio stile.

E infatti dopo un attimo apostrofa marito: “E dov’è che stai, tu, a Milano?” “Sì” “Allora sei italiano, gli italiani non mi piacciono” “…”

È che il mondo per questo simpatico si divide in due categorie: gli italiani e i non italiani. Lui ovviamente non è tra i primi. Gli italiani, per dire, sono tutti imbroglioni, ladri, approfittatori (ecco, non mafiosi, questa fascia non è contemplata). Prova ne sia, appunto, il mercato dell’ottica. Verso il quale si lancia in invettive furibonde; lui sa tutto di tutti i marchi, chi è e che fa questo, chi era e che faceva quello, da dove vengono veramente le montature, quali aziende lavorano bene e quali fanno finta. Insomma, ci si fa una cultura nel settore, infarcita di viscerale sdegno.

E allora la sua politica di prezzi è una presa di posizione ideologica, non di mercato. Lui applica i ricarichi di tutti gli altri settori. E ha una caterva di clienti che si sottopongono alla corvée del viaggio, dell’attesa, del comizio (ché se vai da lui un comizio te lo becchi, niente da fare), tutti contenti di tornare a casa con due paia di occhiali al prezzo di uno, spesso con un po’ di resto ancora.

Ah, poi gli occhiali bisogna andare a ritirarli. E lui non risponde al telefono, quindi non lo si può chiamare prima per sapere se sono pronti. E una volta non li abbiamo trovati: gli occhiali erano stati fagocitati dal tavolo. Succede. Altro giro, altro regalo.

P.S. per ulteriori informazioni, scrivetemi in pvt

lunedì, giugno 06, 2011

A un certo punto devi farti riconoscere

La tata del mio pupo va per i 60 ma non si capisce. La tata del mio pupo non è andata al mare per 30 anni perché a suo marito il mare non piace e si becca le vacanze in montagna da quando si sono sposati; ora ci è andata per un week end con la parrocchia e quando me lo raccontava aveva le lacrime agli occhi. La tata del mio pupo ha sempre fatto la tata, e nei ritagli di tempo lavorava a maglia o ricamava, ma seriamente: faceva i campionari di maglia per gli stilisti (indimenticabile un pull rosso Valentino, fatto per il medesimo ed eletto capo di punta di non so più quale sfilata); poi il marito ha sviluppato un’allergia per la lana e ha smesso. La tata del mio pupo dice che la cosa più importante per lei è il rispetto: dell’autorità, dei genitori, del marito (più o meno in quest’ordine). La tata del mio pupo, quando ho avuto la mia settimana di passione in giro per l’Italia ha chiesto a mio marito: “ma tu non le dici niente?”, e quando lui le ha risposto “se lei è felice, io sono felice per lei”, si è commossa. La tata del mio pupo frequenta la mia casa da quando il pupo è nato, e dal suo primo giorno di materna è da noi tutti i giorni. La tata del mio pupo mi considera una fuori di testa da sempre (per esempio un giorno sono tornata a casa e avevo in borsa della birra presa dal garage, e lei mi fa “ma come, c’era bisogno del latte e tu porti la birra”, e io a spiegare che non ero andata a fare la spesa, ma che non doveva preoccuparsi, non avrei dato la birra al pupo al posto del latte), ma ora di più. La tata del mio pupo mi ricorda le feste della scuola, le riunioni, i compleanni, e mi guarda ogni volta con riprovazione perché io le do sempre l’idea di essermeli dimenticata, questi gioiosi avvenimenti. La tata del mio pupo mi dice che una volta la settimana almeno dovrei andare a prenderlo a scuola, il pupo, e portarlo al parco con le altre mamme o le altre tate degli altri pupi, e mi guarda con riprovazione perché io le dico ci proverò, appena posso lo faccio, ma poi non lo faccio mai. La tata del mio pupo “si dimentica” di preparargli la cena perché il pupo dovrebbe cenare con noi, e noi dovremmo essere a cena alle 7 e mezza, mica alle 9. La tata del mio pupo mi dà la morte.

Quello che la tata del mio pupo non sa è che per alcuni anni ha avuto a che fare con il mio avatar. Di cui lentamente ma inesorabilmente mi sto liberando. Perché non c’è situazione più orribile del sentire di vivere la vita di un’altra persona. Anche se sta bene alla tata del pupo.

E dire che avevamo cominciato bene, non io e la tata ma io e marito. Il pupo ci seguiva ovunque, ma cercavamo di non farci mancare niente (a parte il cinema, vabbè). Ogni tanto venivano a trovarci i miei e cercavamo di ritagliarci almeno una serata solo per noi. Oppure il pupo rimaneva con la vicina, ed erano felici tutti e due, e anche noi. Poi volevamo portarlo in barca, da subito, così se ne faceva una ragione.

A un certo punto però i miei non sono venuti più, il pupo ha iniziato a recalcitrare per certe uscite, e dopo la morte della cagnolina anche la vicina ha perso il suo fascino. Quanto alla barca, le volte che riuscivamo ad organizzare con altre famiglie (che mica puoi far subire un pupo a un equipaggio di single) capitava sempre che all’ultimo momento uno dei pupi si ammalasse, e senza accorgercene ci siamo dimenticati del proposito.

Questa cosa è andata, non bene, ma andata. Poi un giorno ho mollato il lavoro che mi stava ammazzando, ho iniziato a farmi un mazzo tanto per conto mio, mi sono iscritta a Pilates, ho riscoperto il piacere di mettermi la crema idratante tutte le mattine. E mi sono resa conto che ricominciavo a respirare. E ho deciso che volevo respirare fino in fondo.

Ho consultato la rete: un po’ di persone sagge, wikipedia alla voce “tata”, l’oroscopo di Internazionale. Salta fuori che c’è un sacco di gente che si fa domande e che si dà risposte su cose simili. Che arriva un momento in cui uno deve riprendersi la sua vita, cercando sì di non fare vittime, ma evitando accuratamente che la vittima sia lui stesso. Che c’è chi vuole prendersi “il resto”, come dice Flavia, e chi analizza la situazione in termini di alfa e beta o anche di smalto nero rosso, come Chiara. Che quest’anno mi dice bene, secondo gli astri. Che adesso che sono partita non mi posso più fermare, neanche se lo volessi.

Perciò il programma per il prossimo futuro – ma anche per il presente, alcuni passi sono stati già fatti – è serratissimo, e temo che la tata del pupo dovrà farsene una ragione.

E la mia parola del mese è riappropriazione. Che, stante la situazione attuale, dovrò gestirmi più che altro come un esproprio proletario.

(Che poi io capisco che se una tata si ritrova con una che un giorno le dice “guarda, abbiamo scherzato, hai presente quella con la mia faccia che stava qui fino a ieri? Beh, non sono io, era un avatar, sai che vuol dire avatar?” un po’ si sturba. Ma è pur vero che potrei, in una botta di milanesità, farle presente che pagopretendo. Oppure farle notare che essere un avatar per 8 anni è di certo strano, ma è molto più strano non confessare al consorte che la montagna ti fa cagare, e andare avanti così per 30 anni).

(Alla voce “tata” Wikipedia ha una pagina di disambiguazione che porta a un’altra piuttosto banale intitolata a “babysitter”. Ecco, stavolta è stata proprio lo cosa meno utile).

mercoledì, giugno 01, 2011

A cena con Badgeville

“Ma dove cavolo è Kettydo?” 

Effettivamente per una come me, dotata del senso di orientamento di una trottola ubriaca, non è così banale. Prima di arrivare alla meta sono passata in altre due situazioni – un set fotografico per chissà cosa e una festa rasta –, ho mandato l’SMS di cui sopra e ho fatto una telefonata.

[Piccolo disclaimer per gli amici di Kettydo: la prossima volta, negli inviti, non indicate solo il civico, ma anche il piano e il numero di loft. Ho motivo di pensare di non essere la più imbranata del mondo, e se anche fosse così, fatelo per me, che tanto non vi costa niente lo stesso ;)]

L’occasione era ghiotta: io e qualche altro blogger eravamo invitati a cena per conoscere Maarten De Zeeuw, Direttore Europa di Badgeville.

Badgeville è una piattaforma (white-label, quindi customizzabile dal singolo brand che ne fa uso) che introduce meccaniche di gioco nella normale attività degli utenti dei siti, con dinamiche fortemente integrate ai social media. Quindi, a seconda dell’attività svolta, i membri della comunità riceveranno punti, badge, coupon, e così via, proprio come se fossero su Foursquare o su Miso o su un qualunque socialcoso con una forte componente di gaming.

E infatti la novità di Badgeville è in questo, che potrebbe essere il nuovo trend social dopo la geolocalizzazione: la gamification. Il presupposto è più o meno: se l’attività in rete diventa in gioco, le persone risulteranno stimolate ad attuare certi comportamenti, e questi comportamenti saranno misurabili, perché non più dispersi nel mare magno dei social network ma concentrati, per così dire, in un unico hub, che potrebbe essere costituito dal sito del brand. Bello, dice. Sì, bello, soprattutto dal punto di vista del marketer, che finalmente potrà dare i numeri con un po’ di senso (perché poi, gira che ti rigira, il punto è sempre lì: i numeri).

Io però ho fatto un altro pensiero, ed è quello che voglio condividere, più che un’analisi del fenomeno in sé (per il quale si trova in rete ricca documentazione).

Leggo nel sito gamification.it:

La gamification ha due obiettivi decisamente interessanti […]. 
Il primo è “stimolare un comportamento attivo e misurabile”. L’implementazione di meccaniche ludiche è uno dei metodi più efficienti per coinvolgere le persone nelle attività di un sito e di un servizio, ma anche per agevolare comportamenti offline. […] 
Il comportamento dell’utenza è misurabile, raccogliendo i dati basati sulle azioni compiute all’interno del gioco. È perciò possibile effettuare una profilazione degli iscritti, permettendo di concentrarsi particolarmente sul target e/o cercando di espandere il potenziale bacino d’utenza. 
Il secondo obiettivo della gamification (in realtà, per certi versi, presupposto del primo) è “guidare un interesse attivo verso il messaggio da comunicare”. La gamification è dunque un mezzo per veicolare efficacemente le varie informazioni, focalizzando l’attenzione dell’utente verso la campagna di comunicazione ed il brand. Per esempio la gamification applicata ad un sito può valorizzare il messaggio, migliorare il coinvolgimento e raggiungere fasce demografiche differenti. […]

La domanda che mi sorge spontanea è la seguente: che differenza c’è tra questo e la raccolta punti di Ferrero o dell’Esselunga? Lasciamo stare che una cosa è on e una è off line. Tutti i meccanismi di loyalty si basano sull’attivazione dei clienti e sono finalizzati, oltre che alla fidelizzazione, alla misurabilità. Lasciamo stare anche, incidentalmente, che nella maggior parte dei casi tutti i dati rilevati da un programma di loyalty rappresentano solo un sottoinsieme dei fattori che incidono sulla vita di un brand, poiché gli altri atti d’acquisto – quelli di chi la carta fedeltà non ce l’ha, nel caso specifico – rappresentano una mole di dati troppo imponente per poter essere veramente utilizzata: in altre parole, anche se l’Esselunga sa che cosa compro ogni settimana, questa informazione non le serve a niente, oltre che a sapere che una volta l’anno mi regalo un gadget con i punti che ho accumulato.

E da questa domanda la successiva diventa: non è che siccome non abbiamo abbastanza fantasia stiamo riproponendo logiche tradizionali (nel senso di marketing tradizionale, quello delle 4 P) alla rete? Insomma, il problema oggi come oggi è, per le attività social, la misurazione. Non la misurabilità, che sarebbe anche possibile, semplicemente adottando KPI diversi da quelli tradizionali; bensì la misurazione in sé, poiché il difficile è far digerire ai marketer suddetti che i numeri danno un’idea parziale di quello che succede veramente al brand quando va in rete, tra le persone, nel mondo. 

Badgeville sfrutta molte delle potenzialità espresse dalle dinamiche della rete, e questo è un bene, perché vuol dire che nella rete "ci sta dentro", e anche alla grande. Però la finalità in sé non mi sembra veramente innovativa, non ai fini del marketing e di una cultura del marketing che fa fatica a liberarsi delle zavorre degli ultimi, diciamo, trent'anni. Se vogliamo andare verso una relazione con il consumatore ho dei dubbi che la strada possa essere questa: avrò consumatori fidelizzati al gioco più che al prodotto, a meno che io non sia veramente bravo e riempia il gioco (di cui prima o poi la gente si stuferà, come si è stufato di Farmville) di contenuti effettivamente utili alle persone. Alle persone, non ai consumatori, né al brand.

Ecco, queste sono solo considerazioni. Che mi vengono così, da marketer mio malgrado e umanista di formazione. Proporrò sicuramente Badgeville ai miei clienti, e ci giocherò, anche. Ma continuerò a cercare il modo di andare davvero in una direzione che possa essere fedele alle persone che stanno in rete più e prima che ai miei colleghi marketer.